«Due degli ultimi grandi pittori di quel paese (l’Italia), intendo Pompeo Batoni e Raphael Mengs, per quanto grandi possano suonare i loro nomi alle nostre orecchie oggi, cadranno molto presto al rango dell’Imperiali, Sebastiano Conca, Placido Costanzi, Masucci; i cui nomi, sebbene altrettanto rinomati ai loro giorni, sono ora caduti in qualcosa di molto simile a un completo oblio». Così Joshua Reynolds, nel 1788, profetizzava la già imminente sfortuna critica di un’intera scuola che, partendo da Maratti, era fiorita a Roma nella prima metà del Settecento e aveva avuto come epigoni Batoni e Mengs. Sebbene da tempo in stagnazione economica e demografica, l’Urbe rimaneva una delle capitali dell’Europa colta del tempo, un polo che esercitava un’attrazione irresistibile per gli amanti delle arti, capace ancora non solo di ricevere, ma anche di irradiare. Nel suo ruolo di mèta per eccellenza del Grand Tour, la città si rinnovava e si abbelliva: è noto come le sue scenografie urbane ancora oggi irresistibili, dalla Fontana di Trevi alla Scalinata di Piazza di Spagna, nacquero allora, quando Roma assurse definitivamente a luogo deputato per il culto del bello (antico e moderno).
La mostra programmata per la scorsa estate al musée Fesch di Ajaccio, rinviata causa Covid, ha preso in prestito il titolo da La grande bellezza di Sorrentino, dove peraltro non è dato troppo spazio alla Roma del primo Settecento, che pure è forse la Roma per eccellenza (si pensi ancora alle facciate di San Giovanni in Laterano o di Santa Maria Maggiore); magari perché quasi abusata. Una città già immortalata nelle incisioni giovanili di Piranesi, nelle luminose tempere di Gaspar van Wittel e nelle sontuose vedute di Panini – la risposta romana a Canaletto – con le quali, la prossima estate, si aprirà il percorso espositivo. Intanto è stato pubblicato il catalogo (a cura di Andrea Bacchi, Liliana Barroero e Andrea Zanella) che qui si recensisce, impaginato con eleganza e provvisto di un utile (e purtroppo raro) indice dei nomi: La Grande Bellezza L’Art à Rome au XVIIIe siècle, 1700-1758 (Silvana Editoriale, pp. 300, e 29,00). Il volume vede la partecipazione di alcuni dei maggiori studiosi di questi temi (da Maria Teresa Caracciolo a Arnauld Brejon de Lavergnée) e di una pattuglia di giovani studiosi italiani e francesi (Vittoria Brunetti, Annick Le Marrec, Davide Lipari e Vincenzo Mancuso tra gli altri) autori di schede che presentano spesso novità di rilievo.
Negli anni passati il direttore del musée Fesch, Philippe Costamagna, ha portato avanti con intelligenza un programma di valorizzazione delle raccolte di pittura italiana del museo e di altre istituzioni francesi (a partire dal Louvre), non puntando l’attenzione su cronologie e contesti già ben noti, ma recuperando la Firenze del Seicento (piuttosto che non quella del Rinascimento) o la Venezia sempre del Seicento (piuttosto che non quella del Settecento). Anche in questo caso si è voluto puntare sulla Roma della prima metà del secolo, sempre un po’ sacrificata rispetto a quella che, con Canova e David, tenne a battesimo il Neoclassicismo. Una stagione artistica riscoperta da due studiosi anglosassoni, Anthony M. Clark e la compianta Stella Rudolph, alla quale il catalogo è doverosamente dedicato. Le altre retrospettive sulla Roma del Settecento (Philadelphia 2000; Roma 2005-’06) non avevano operato alcuna cesura fra la Roma tardobarocca e quella neoclassica. E per il catalogo, rispetto a quei precedenti, si è preferito favorire il dialogo fra le arti, senza separare dipinti da sculture, disegni d’architettura da oreficerie, etc., ma articolando il discorso attraverso cinque sezioni tematiche (Roma; l’accademia; la festa; il palazzo; la chiesa); non rinunciando peraltro a una narrazione cronologica, poiché tre dei saggi di apertura, firmati dai curatori, sono dedicati allo sviluppo stilistico in un arco di tempo scandito dai pontificati di Clemente XI Albani (1700-’21), Clemente XII (1730-’40) e Benedetto XIV (1740-’58).
Non era facile dare conto di tutte le correnti di gusto che attraversano la città in quegli anni, poiché accanto al più noto classicismo arcadico dei maestri condannati da Reynolds, ovvero Conca, Costanzi, e in particolare Trevisani, lavorano anche pittori irriducibili alla nobiltà d’eloquio tipica della scuola romana, come Traversi o Benefial, di cui sono esposti capolavori provenienti dalle Gallerie Nazionali Barberini Corsini (partner del musée Fesch, insieme all’Accademia di San Luca). E i volti un po’ attoniti, un po’ sgraziati della famiglia Quarantotti, che possono evocare il mondo del doganiere Rousseau, indagati con impietoso spirito d’osservazione da Benefial (un pittore legato al nome della Barroero), sono accostati al titolo La grande bellezza in una copertina che vuole giocare sul paradosso. Tra gli artisti citati da Reynolds, inoltre, era anche l’Imperiali, oggi quasi dimenticato, il cui Veturia e Volumnia davanti a Coriolano (Ariccia, Collezione Lemme), memore di Poussin, costituisce una delle più precoci anticipazioni di certa severità tardosettecentesca (Gavin Hamilton); la tela inoltre, scomparso l’Imperiali, era stata terminata da Agostino Masucci, costituendo per noi oggi un ponte ideale tra Maratti e il Neoclassicismo. La convivenza di tante tendenze artistiche diverse era favorita da un clima culturale vivacizzato da quegli intendenti, antiquari e viaggiatori ritratti nelle caricature di Pier Leone Ghezzi e Carlo Marchionni, anch’esse in mostra.
In un campo ormai oggetto di studi sempre più approfonditi, la mostra riserverà delle sorprese, dal Busto di Beatrice Caracciolo del poco noto Giuseppe Rusconi in collezione privata (riscoperto dalla Desmas) alla pala d’altare dello stesso Fesch (La Vergine con san Giuseppe Calasanzio) di cui Bacchi propone qui l’attribuzione a Batoni. Prestito importante è il magnifico Sant’Ambrogio e Teodosio di Perugia, capolavoro di Subleyras, forse il maggiore pittore della Roma del tempo, severo già come David, morbido ancora come Trevisani; una Roma per tanti versi gemellata con Parigi attraverso il dialogo delle rispettive accademie, indagato da Zanella e messo in scena attraverso disegni, progetti e modelli di Monnot, Legros o Slodtz. Tra i 162 numeri di catalogo, compare anche l’Antico (il Centauro del Louvre, donato dagli Albani a Luigi XIV), e uno spazio importante è riservato poi a arredi e oreficerie, a ricomporre idealmente un mondo di fasto e mondanità.
È comunque la pittura, giustamente, a essere protagonista, perché davvero tanti sono gli artisti di prima grandezza che lavorarono a Roma in quegli anni: il Giaquinto dalle iridescenti cromie; l’elegante, quasi rarefatto Luti; il già citato Ghezzi, con quella scena del futuro Benedetto XIII salvato dalle macerie del terremoto che non cesserà mai di stupire. Da paragonare a quella di marchiatura dei buoi raffigurata da Bottani, altro squarcio sulla contemporaneità, che ci restituisce una Roma fatta non solo di pale d’altare e dipinti devozionali. Una mostra insomma coraggiosa, che intende offrire a un ampio pubblico tanti grandi artisti, anche se non tutti celebri oggi (la profezia di Reynolds si è in parte avverata), senza temere di spiazzare i visitatori con un quadro eterogeneo, esaltante proprio per questo caleidoscopico affastellarsi di stili e linguaggi. Come già Clark ed altri avevano intuito, è questa la chiave migliore per rimettere in gioco la Roma 1700-’58 dopo il giudizio di Haskell, che nei suoi Patrons and Painters (1963) l’aveva fortemente svalutata in favore della Venezia di Tiepolo e Canaletto.