Barbad, il più stimato e dotto musicista del suo tempo, vissuto alla corte di uno degli ultimi sovrani dell’Impero sasanide, Kosrow II Parvez, regnante tra il 591 e il 628, secondo la leggenda si nascose un giorno tra le foglie del giardino di corte, dove si teneva un banchetto, e cantò tre canzoni talmente commoventi che il Re lo nominò immediatamente capo menestrello.

Alla morte di Kosrow II, Barbad si sarebbe rifugiato a Tisfun, sua città natale, e dopo aver intonato alcune elegie in memoria del defunto si sarebbe tagliato le quattro dita della mano e avrebbe bruciato il suo liuto. A questo leggendario musicista della Persia preislamica le antiche fonti attribuiscono l’invenzione di sette modi reali detti kosrovani, trenta modi secondari detti lahn, e trecentosessanta melodie da cantare ogni giorno al banchetto del Re, secondo il calendario zoroastriano, dette dastan.

In altre parole a Barbad si deve il più antico sistema musicale del mondo mediorientale, e il punto di partenza di uno sviluppo musicale che abbraccia una fascia enorme della civiltà umana, dalle città imperiali del Marocco fino alle popolazioni di etnia uigura, turcofone e di religione islamica, della Mongolia e della Cina nord-occidentale.

In questa immensa striscia antropologica, un miscuglio di tradizioni musicali discendenti prevalentemente da tre ceppi, quello greco ellenistico, quello bizantino e quello sassanide, si sono costantemente scontrati in guerre secolari e lotte per il potere, non impedendo tuttavia alle diverse espressioni artistiche di circolare da un capo all’altro della vasta area, seguendo i destini di stati combacianti e di popoli di volta in volta sottoposti al provvisorio dominio dell’una o dell’altra potenza.

Tutto cambiò con l’avvento dell’Islam. A meno di vent’anni dalla morte del Profeta, nel 632, le armate islamiche avevano già travolto la resistenza bizantina in Siria e Palestina, conquistato l’Egitto e l’Iraq, e soprattutto erano penetrate in maniera devastante in Persia, annettendo l’Impero sasanide e decretando la fine della civiltà zoroastriana.

I popoli arabi, che non avevano una grande tradizione musicale alle spalle, entravano così in contatto con culture artistiche estremamente raffinate e ricche di forme e generi musicali per ogni occasione della vita. Era l’inizio di una nuova era, in cui la musica d’arte trovava una vasta diffusione in tutti i centri della cultura islamica, formando nel corso del tempo una koinè sopravvissuta, bene o male, fino ai giorni nostri.

Trovare una maniera di raccontare un oceano senza sponde qual è la musica dell’area mediorentale e centroasiatica è l’impresa titanica che Giovanni De Zorzi, il maggior studioso italiano di musica sufi ottomano-turca e persiana ha affrontato con risultati brillanti in Maqam Percorsi tra le musiche d’arte in area mediorentale e centroasiatica (Squi(libri) edizioni, pp. 291, € 28,00). La sintesi di un insieme così smisurato di forme, stili e linguaggi musicali, secondo De Zorzi, è il termine maqam, che pur in una pluralità di varianti a seconda delle diverse tradizioni e delle diverse epoche indica la soglia che divide il sistema musicale orientale, basato sulla modalità e sui microintervalli, da quello occidentale, fondato sulla polifonia, sugli intervalli temperati e sulla tonalità.

Il sistema di Barbad rivela come il mondo del maqam poggi, fin dalle origini, su una concezione della musica legata al tempo circolare, alla cosmologia e all’astrologia. Anche l’evoluzione ritmica, nei trattati islamici, è legata a idee cicliche e rappresentazioni circolari. Il nostro mondo, invece, è andato in direzione opposta nella musica, soprattutto a partire dall’ars nova, privilegiando l’idea pitagorica del numero e dell’astrazione matematica.