Parlando ai Movimenti popolari papa Francesco ha esposto la sua idea di aggiornamento pastorale. La parola «povertà» è tornata al centro di una visione della Chiesa che fa delle periferie il proprio referente privilegiato.
In La Chiesa dei poveri. Dal Concilio Vaticano II a papa Francesco (Guerini, pp. 256, euro 22,50), Matteo Mennini ripercorre le origini contemporanee della battaglia per la povertà della Chiesa, dagli anni del Vaticano II all’enciclica Populorum progressio di Paolo VI. Il libro è figlio di una ricerca originale basata sullo studio degli Acta Synodalia, che conservano gli interventi dei padri conciliari in San Pietro, dei diari, della corrispondenza dei protagonisti e, soprattutto, delle carte di Paul Gauthier, l’anima del gruppo conciliare della «Chiesa dei poveri».

LA RICOSTRUZIONE prende le mosse dal dossier che il prete operaio francese, animatore a Nazareth della comunità dei «Compagni di Gesù Carpentiere», diffonde tra i vescovi nelle prime settimane del Concilio.
Siamo negli anni in cui i movimenti ecclesiali premono su Roma per riabilitare l’esperienza dei sacerdoti in fabbrica repressa da Pio XII. Circola anche nel mondo cattolico il grido di Fanon per i Dannati della terra e Giovanni XXIII ha indetto un Concilio ecumenico per fare della sua comunità «la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri».
Già nell’ottobre 1962, per iniziativa dei vescovi Himmer e Hakim, prende vita presso il Collegio Belga di Via del Quirinale un gruppo informale che si propone di ottenere dal Concilio maggiore sobrietà, semplificazione degli apparati, ma soprattutto l’evangelizzazione dei poveri come priorità. Nel corso dei lavori l’apparato teorico del gruppo – formato in prevalenza da vescovi belgi, francesi e latinoamericani – si perfezionerà grazie anche al contributo di Giuseppe Dossetti allargando lo spettro delle richieste. Se l’obiettivo di fondo è ricucire lo «scisma» dei poveri dalla Chiesa istituzionale, gli strumenti proposti spaziano dal dialogo con la cultura comunista a una nuova concezione dell’azione nel mondo operaio: non più missione specializzata in partibus infidelium, ma testimonianza evangelica e stile di vita umile. Secondo vescovi come Mercier, Câmara, Gerlier, la povertà deve divenire il punto prospettico dell’intera attività conciliare.

VA LETTO sotto questa luce il famoso intervento del 6 dicembre in cui il cardinale Lercaro di Bologna scuote l’aula conciliare. Nei fatti però l’insieme di queste proposte troverà un’accoglienza limitata nei documenti partoriti dall’assemblea. Il 13 novembre 1964 Paolo VI scende dal trono e depone la tiara sull’altare, ma questo alto gesto simbolico non è accompagnato dall’accettazione delle proposte dottrinali e procedurali redatte da Dossetti. Lo storico Denis Pelletier ha parlato di «una successione di occasioni mancate» che spingerà il 16 novembre 1965 alcuni vescovi a firmare un patto, detto delle catacombe, che lanciava una sfida alla Chiesa del post-concilio.
In questo testo i firmatari si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli e ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il documento influenzerà i passi successivi dei vescovi latinoamericani che nel 1968 a Medellín tireranno le fila dell’aggiornamento. Secondo Mennini, con il suo viaggio in Colombia, prima a Bogotà (l’incontro con i campesinos) e poi alla conferenza del Celam, Paolo VI si sarebbe posto in sintonia con tali orientamenti «superando l’esigenza di determinare vincoli giuridici per segnare il cammino della Chiesa verso i poveri». Si tratta però di una considerazione discutibile, già alla luce degli scontri che avevano accompagnato il viaggio e, più in generale, che contraddistinguevano questa prima fase post-conciliare.

È NOTA, PER ESEMPIO, la decisione del papa di non rendere omaggio alla figura di Camilo Torres. Si aggiunga poi che le teologie della liberazione, punta di lancia della spinta riformatrice che aveva raccolto l’eredità delle catacombe, furono oggetto, nelle loro espressioni meno gradite al papa, di critiche molto dure in un’escalation che culminerà nella repressione durante gli anni di Giovanni Paolo II.
Ma soprattutto, la sfida lanciata all’epoca dal cattolicesimo latinoamericano riguardava un intervento sostanziale sulla Chiesa sia a livello dottrinale sia nella riforma delle strutture: un piano ancora aperto e problematico su cui sarà necessario valutare l’aggiornamento del primo pontefice figlio di quell’esperienza continentale.
Il libro di Mennini è uno strumento di qualità dal punto di vista storiografico per districarsi in una storia che il pontificato di Francesco ha riaperto dopo una lunga parentesi.