L’ultima trovata di chi anela il voto anticipato o un altro governo, è contrapporre l’azione rafforzata della Banca Centrale Europea al ricorso ad altre misure di sostegno all’economia, complementari e tali da costituire un passo verso un’Europa più unita e, quindi, più indipendente. Questo governo è inviso a molti detentori d’interessi potenti, non per i suoi errori, ma per alcune qualità dimostrate soprattutto nei suoi rapporti con l’Europa, tali da rafforzarne la resilienza e indebolire ipotesi di altre maggioranze o elezioni anticipate. Soprattutto Giuseppe Conte che lo guida, sostenuto dal presidente Mattarella e dal ministro Gualtieri, è riuscito – dopo le smargiassate di Salvini e, non dimentichiamolo, di Renzi, in anni precedenti – a non presentarsi a Bruxelles con il capello in mano del penitente ora bisognoso di aiuti, a cui avrebbe, invece, diritto.

La strada imboccata, impervia ma dimostratasi produttiva, è stata quella di indicare la crisi in atto come un’occasione storica per rafforzare l’Unione, uscendo da una sempre più nevrotica gestione intergovernativa. In tal modo il governo italiano, forte delle credenziali che gli derivano dall’essere stato il primo in Europa a cogliere il senso della pandemia, ha contribuito in maniera rilevante alla natura e all’entità della proposta von der Leyen di fronte al ParlamentoeEuropeo. Gli eurobond, o comunque li si voglia chiamare o mascherare, rompono quella sorta di muro del suono costituito dall’impegno finanziario condiviso dall’Unione nel suo insieme.
Non a caso l’iniziativa della Commissione è stata preceduta dalla scelta, auguriamoci definitiva, della cancelliera Merkel, con il presidente Macron al suo seguito.

Quella di non più obbedire ai richiami della foresta di un’Europa al servizio dell’ex marco (più che dell’euro) e di sposare la causa dell’unificazione europea. In tal modo si è aperta una nuova prospettiva, con una condizionalità di accesso ai finanziamenti in gioco non più dettata da dogmi neoliberisti, bensì da criteri ispirati alla lotta per una salute publica a prova di pandemia, una sostenibilità ambientale e sociale, fino a prevedere una non chimerica unità fiscale. Tutte misure e prospettive di cui il nostro governo potrebbe farsi paladino.

La partita è tutt’altro che conclusa, sia a livello europeo che italiano. Non mancano gli uccelli del malaugurio, corporativi e confindustriali, quindi non soltanto appartenenti all’opposizione politica, i quali, come noto, si nutrono di previsioni negative di ciò che non vogliono accada, magari atteggiandosi ad osservatori attenti ed obbiettivi. Eppure il problema esiste. La partita sarà tesa e di non breve durata, perché i governi, protagonisti fino al Consiglio Europeo del 18 giugno ed oltre, sono consapevoli del fatto che, al di là delle obiezioni dei quattro stati così detti virtuosi, è in gioco il loro potere all’interno dell’Unione che una transizione verso un rafforzamento della Commissione e del Parlamento comprometterebbe gravemente.

Ormai, in maniera più o meno esplicita, la discussione trascende le singole misure economiche per chiamare in causa prospettive di più lungo periodo, in cui oltre mezzo miliardo di persone rischiano di restare prive di una voce e di una rappresentanza a livello globale. Un’Europa più unita e anche più politica in prospettiva indebolirebbe l’insediamento statunitense in Europa, a cominciare dalla Nato.

A questa ipotesi sono storicamente ostili, ora che il Regno Unito si è tolto di mezzo, paesi quali Olanda e Danimarca, oltre ai paesi di Visegrad, combattuti tra le esigenze di una difesa di marca statunitense e il pane e salame offerto dall’Unione europea. Invece, una non rinnegata tradizione gollista ha spinto Macron a porre per primo il problema della sopravvivenza dell’alleanza atlantica, e Merkel, sollecitata dai suoi alleati di governo socialdemocratici, guarda ad est ed anela una distensione nei rapporti con la Russia. Tre paesi fiscalmente virtuosi – Finlandia, Svezia e Austria – sono neutrali e, anche se non per vocazione europeisti, più compatibili con una sicurezza europea piuttosto che atlantista.

Per affrontare prospettive di queste dimensioni, il governo italiano farà bene ad acquisire rapidamente una piena consapevolezza dei condizionamenti del passato. La vocazione europeista dell’Italia, da Ventotene alla conferenza di Messina e al trattato di Roma, è stato in realtà l’antidoto democratico ad una subalternità atlantica consolidata, nel contesto della Guerra Fredda, dalla dipendenza da Mosca, almeno fino all’invasione della Cecoslovacchia, del principale partito di opposizione. Con delle limitazioni dì sovranità territoriale che fanno dell’Italia, accanto alla Germania – non a caso paesi sconfitti nella Seconda guerra mondiale – la principale base militare in Europa, con tanto di armamenti nucleari.

Una eredità che si ripresenta nell’esibizione di messaggi indirizzati al “caro Giuseppi”, nel confermato acquisto di costosissimi e mal funzionali velivoli di attacco, in mal celati imbarazzi in sede di G 7; soprattutto, in un’assenza politica nel contesto mediterraneo (questa sì inedita, in confronto alle “infedeltà” pagate a duro prezzo, di Mattei, Moro e Andreotti).

Ma non è tutto. Continuiamo a subire, a causa di perduranti pressioni statunitensi – non necessariamente legati alla sola presidenza di Trump – sanzioni nei confronti dell’Iran, della Russia e della Cina che feriscono prevalenti interessi commerciali italiani. Per non parlare del profilarsi di un nuovo bipolarismo antagonistico tra la stessa Cina e gli Stati Uniti, ormai più soltanto militarmente egemoni, che rischia di stritolare un’Europa ancora divisa.