«DieciXuno. Una poesia dieci traduttori» è una collana curata da Antonio Lavieri per Mucchi Editore, rapidi libretti che propongono di celebri poesie straniere dieci traduzioni apparse nel corso degli anni, scelte e confrontate dal curatore, che a sua volta propone una versione sua. Sono usciti per ora testi di Shakespeare, Keats, Rimbaud e Whitman, quest’ultimo rappresentato dalla sua poesia oggi più nota benché meno caratteristica: O Capitano! Mio Capitano! (a cura di Franco Nasi, pp. 75, € 8,00). Parrebbero esercizi accademici e magari un po’ malevoli («comparisons are invidious» dice un proverbio inglese, e si badi che «invidious» non vuol dire «invidioso» – falso amico! – ma «odioso»). È sempre facile fare le pulci ai traduttori, non di rado affaticati, disattenti, fantasiosi riscrittori (specie in poesia, visto che la poesia «non si capisce», non ci si aspetta che una traduzione abbia senso). Ma qui siamo in un altro campo, quello della storia della fortuna di un grande testo nel corso ormai di secoli, e nel campo opinabile della valutazione storica e artistica-espressiva. «Una bella traduzione». Facile da dire… Cosa e perché si traduce? E chi legge una traduzione? Cosa ne fa?
Sicché un volumetto come questo O Capitano! è in realtà untre ’utilissima introduzione a tutto Whitman, il colosso di cui si è appena festeggiato il bicentenario, col suo progetto di mettersi corpo e anima sulla pagina insieme alla sua meravigliosa America. E un’introduzione agli usi che se ne sono fatti, letterari e politici. Whitman è infatti letto già in vita come un poeta socialista, pubblicato in edizione economica da Sonzogno nel 1887 e 1890, nella versione del molisano Luigi Gamberale: «Walt Whitman, un cosmos, il figlio di Manhatta, / Turbulento, carneo, sensuale, che mangia e beve, / Non sentimentalista, ma [sic! – in realtà «che non»] si pone al disopra degli uomini e delle donne, né si segrega da essi, / Non più immodesto che modesto. // Divino son io, dentro e fuori, e fo santo qualunque cosa mi tocchi o sia toccata da me. // L’odore di queste ascelle è aroma più delicato che la preghiera / E questo capo piucché le chiese, le bibbie e tutti i credo».

Cito da un opuscolo che i pendolari del 1890 potevano acquistare nelle edicole per centesimi 2,5. I pendolari di oggi (quando torneranno) avranno più difficoltà a procurarsi un’edizione economica di Walt, ma vi troveranno quasi sicuramente O Capitano! Mio Capitano! che invece Gamberale ometteva dai suoi primi volumetti e dovrà la sua fortuna in Italia al film L’attimo fuggente (1989), mentre altrove era da sempre famosa, come indica appunto quel film. Infatti O Capitano! è una delle sole tre poesie scritte da Whitman in versi tradizionali, come notò già nel 1897 Pasquale Jannaccone in uno studio della sua metrica. Incredibile che già allora Walt fosse approfondito, e poi naturalmente letto da D’Annunzio Carducci Pascoli prima di divenire l’idolo dei beat internazionali, dei lawrenciani, dei gay… Fra questi abbagliati da Walt c’è… Palmiro Togliatti che, come Nasi racconta, traduce nel 1919 su «L’Ordine nuovo» A un rivoluzionario vinto d’Europa: «Rivolta! rivolta! E ancora rivolta! / Rivolta! e la caduta dei tiranni! / Rivolta! e una palla per i tiranni!». La censura blocca la pubblicazione, Gramsci interviene il 14 giugno: «Come scimmie ubriache si sono sfogate oscenamente sulla bellezza…». Anche lui era giovane.
Storie come queste ci mostrano come Whitman conti inquieti ecciti… anche se non in O Capitano! Poesia scritta per la morte di Lincoln, paragonato al capitano che riconduce salva la nave in porto. «Ma o cuore, cuore, cuore, / O rosse gocce di sangue, / Dove sul ponte giace il Capitano, / Caduto, freddo, morto» (Giachino, 1950). È una stampa dell’Ottocento, ma che evidentemente per i ragazzi dell’Attimo fuggente e tanti altri rappresenta con efficacia i loro sentimenti, più che la complessa elegia, capolavoro riconosciuto, che Walt dedicò a Lincoln, e che per quanto presente in tutte le rappresentative scelte italiane, non è sicuramente sulla bocca di tutti: «Quando l’ultima volta i lillà nel cortile fiorirono, / E la grande stella calò presto nel cielo a Occidente nella notte, / Io piansi e ancora piangerò con ogni primavera che torna. // Primavera che sempre torni, una trinità sicura mi porti, / lillà che fiorisce perenne e stella calante a Occidente, / e il pensiero di lui che amo». È una lunga trenodia con immagini ricorrenti e ritmi dilatati. Whitman disse che a Washington nella primavera precedente l’assassinio aveva visto Venere brillare al tramonto, e l’aveva letto come un presagio. E la poesia Quando l’ultima volta i lillà parte da questo.
Che esula dalla trattazione serrata e illuminante di Nasi, la quale ha il merito di riproporci in poche pagine l’intrico degli originali e delle letture di questo poeta declamatorio e misterioso, sempre vitale se non vitalistico. Scrive il libro della sua vita e ci guarda sornione mentre lo leggiamo dopo due secoli, manipoliamo, traduciamo. Aggiungo che anche per un profano questo trattatello dà conto di taluni capisaldi della teoria della traduzione. Ma niente paura, non vi annoierete.