«Lost Lost Lost esprime il mio stato d’animo e quello di mio fratello quando siamo arrivati a New York. Eravamo degli sradicati, non riuscivamo a dimenticare il nostro paese ma non sentivamo ancora di appartenere a quello nuovo» raccontava Jonas Mekas parlando di Lost Lost Lost (1976), iniziato a girare nel novembre del 1949, appena sbarcato in America, profugo lituano insieme al fratello Adolfas, anche lui cineasta, uniti dal sentimento di non trovare un proprio posto nel mondo. Prima ancora di quel film ci sono le parole raccolte in un suo libro, prima del cinema, I had Nowhere to go, un Lost Lost Lost delle origini, attraversato dallo stesso sentimento di una perdita, di un «disorientamento» – non avevo nessun posto dove andare – che raccoglie le pagine iniziate a scrivere durante la guerra, nel ’44, quando era stato deportato dalla Lituania, dove era nato, nei campi di prigionia tedeschi per poi trovarsi a guerra finita in quelli degli alleati con altri profughi come lui. E se per loro il sogno dell’America era mangiare, ubriacarsi, lavorare, Mekas rimaneva silenzioso: «Cerco un altro mondo in cui vale la pena di stare» scrive in un Natale del 1947 mentre uno scarafaggio cammina nel blu della stanza.

QUANDO arriva a New York la sagoma della Statua della Libertà lo fa sentire finalmente libero. E insieme perduto di nuovo. Lost Lost Lost tra Brooklyn e la comunità lituana, tra la nuova terra e i ricordi, nella solitudine e nella povertà da fame. Fino a arrivare a Manhattan, Orchard Streets East 13th. Lì incontrerà il Living Theatre, Robert Frank, Le Roy Jones, un’altra storia ancora, un’altra vita, momenti di felicità dopo il dolore, la malinconia, la solitudine. Un nuovo inizio, nuove immagini.

Pensare a Jonas Mekas, infaticabile anima del New American Cinema è come percorrere un secolo intero, quel Novecento che ha attraversato nei suoi passaggi più dolorosi – la guerra, la prigionia, la deportazione, l’esilio – al centro delle energie intellettuali e artistiche che nel sono state protagoniste. Filmmaker ma anche artista, musicista – magnifico con la sua fisarmonica capace di andare avanti una notte intera – peota, scrittore, critico – ha fondato «Film Culture» – archivista, divulgatore di cinema con la sua Anthology Film Archives cuore pulsante delle visioni al Village. E «guida» per le giovani generazioni che nel tempo si sono confrontare con le sue immagini in movimento poco inclini a farsi rinchiudere nelle definizioni di genere, formato per sfuggire da ogni parte, che debordano gli schermi, si fanno installazioni, frammenti, si scoprono sempre diverse.

INWALDEN (1969) come il romanzo di Thoreau, un cartello a un certo punto dice: «The sweet, mad, Naomi out of Bellevue, visits Ken and Flo». Che sono, Ken e Flo Jacobs, protaginisti di quello stesso movimento di cinema underground al Village. Ci sono nei film di Mekas – nello struggente As I was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty – molte figure del secolo, Allen Ginsberg o John Lennon, che gioca a pallone col figlio Sebastien, Andy Warhol, Jackie Kennedy … E c’è il sentimento di un’epoca, di un mondo, che può racchiudersi in un fiore o nel dettaglio di un paesaggio o dirci della brutalità dell’esercito americano – The Brig (1964) dallo spettacolo del Living Theatre, per il quale Julian Beck e Judith Malina vennero arrestati e poi abbandonarono gli Stati uniti. Con la sua Bolex Mekas coglie la profondità di ciò che sembra insignificante, la vita che scorre, un po’ di Chopin o come diceva a proposito di As I was Moving … «John Cage e ciò che cerco di catturare con la mia macchina da presa e di condividere con gli altri, che forse cambia secondo il mio coinvolgimento…».

DIARI e memoir intimi – i figli, sé stesso quando era Giovane Poeta nella disperazione e quando era contento – il flusso delle cose, lo sguardo che si posa intorno, il respiro del tempo. La prima persona e insieme un racconto del mondo. E’  la caratteristica unica di questi «diari» che a volte, e nelle diverse forme, su schermo o nelle mostre – la Biennale di Venezia, Kassel documenta … – o sulla pagina restituiscono la suggestione di un vissuto: oltre l’esperienza di un quotidiano c’è lo sguardo, una memoria al presente e suo farsi immaginario.