«La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare», ha scritto T. S. Eliot in uno dei suoi saggi più noti (Tradizione e talento individuale, 1919), ma esige un «buon senso storico», fondato a sua volta sulla consapevolezza «non solo che il passato è passato, ma che è anche presente». La tradizione, insegna Eliot, non consiste cioè nell’inerte ricezione del passato, ma nella sua ricreazione e perfino nel suo tradimento: non si dà tradizione senza un’idea di modernità che reagisca con la storia, la riorienti e la integri. La dialettica e il conflitto tra passato, presente e futuro è il cuore stesso del modernismo letterario, di cui Eliot fu autore emblematico, come in Italia Ungaretti: in Verso un’arte nuova classica (’19), l’autore dell’Allegria e di Sentimento del tempo, rilevava la natura ossimorica dell’idea di classicità. Proprio da una formula ungarettiana, prelevata da una lettera del poeta a Giuseppe De Robertis, prende il titolo il nuovo, denso libro di Antonio Saccone, «Secolo che ci squarti… secolo che incanti» (Salerno Editrice, pp. 294, e 22,00), che raccoglie quindici studi «sulla tradizione del moderno», tra loro connessi in un disegno unitario. La locuzione ungarettiana, osserva Saccone nel saggio centrale e a più alta temperatura teorica del volume («Life is now». L’infinita dilatazione del presente), «è indubbiamente ossimorica, trattandosi di una tradizione scandita su poetiche, versificazioni, congegni narrativi governati dal ripudio della tradizione».
Rovine di una civiltà travolta
Se l’idea novecentesca di tradizione è generata dal rifiuto, si comprende il ruolo cruciale assunto dalle avanguardie, in particolare dal futurismo, cui Saccone dedica alcuni importanti capitoli nella prima metà del libro. Il reagente storico che accelera il sentimento di crisi e cesura è la Prima guerra mondiale, percepita e rappresentata come prima vera apocalisse della modernità (così definita da Emilio Gentile in un suo libro noto, ripreso e citato da Saccone nel quarto capitolo: Futuristi in trincea. Apocalisse della modernità e rigenerazione dell’arte). La tradizione del moderno ha in effetti un connotato apocalittico, sia perché si fonda sulle rovine di una civiltà travolta, che si rigenera attraverso il sentimento del postumo; sia perché, avanzando con lo sguardo volto verso il passato come l’angelus novus benjaminiano, assiste al rivelarsi dei significati ulteriori trasmessi dai frammenti di passato.
Gli stessi futuristi possono diventare, come mostra acutamente Saccone, gli iniziatori di una tradizione polemica e idiosincratica, che percorre il Novecento fino alla contemporaneità. La collocazione artistica e ideologica di alcuni dei più importanti autori del primo Novecento si misura proprio in base alla distanza o alla prossimità rispetto all’‘asse’ futurista; è il caso di Palazzeschi, ad esempio, di cui Saccone analizza Due imperi… mancati. D’altra parte, lungo la direttrice del futurismo si collocano nuove idee di spazio (alla città dei futuristi è dedicato il quinto capitolo) e forme di arte come il cinema (di Marinetti e il cinema tratta il sesto capitolo). Il futurismo infatti «non solo ha raffigurato i valori del nuovo, della velocità, della sintesi, della simultaneità, ma ha anche preannunciato alcuni segni dell’odierna comunicazione globale, in particolare l’infinito espandersi dei messaggi e della loro pervasiva promozione». È proprio concedendo al futurismo la funzione di pivot che il libro da un lato può mettere in relazione passato e presente attraverso il dialogo tra gli scrittori e i loro auctores; dall’altro lato, può dare risalto all’incontro tra letteratura e le scienze. Rientrano nella prima linea specialmente il capitolo 1, su Ungaretti (cui Saccone ha dedicato un’importante monografia pubblicata sempre da Salerno, nel 2012) e il suo progetto di un libro che avrebbe dovuto intitolarsi I miei antenati; e il capitolo XI, su Montale lettore di Dante. L’ampio studio su Calvino e i poeti “scienziati” della letteratura latina (Lucrezio, Ovidio, Plinio) congiunge questa prima linea con la seconda direttrice che percorre il volume. Il miglior esempio di convergenza e naturale integrazione tra scrittura letteraria e scienza è quello di Primo Levi; qui Saccone rilegge Il sistema periodico, anche alla luce del confronto tra il chimico-scrittore e l’opera proprio di Calvino. Ha un nesso con la scienza, o almeno con forme d’indagine del reale che oltrepassano la soglia del letterario, anche il capitolo dedicato a La narrazione investigativa di Leonardo Sciascia, incentrato su La scomparsa di Majorana. L’esempio di Sciascia mostra bene come il moderno e la sua tradizione paradossale si svolgano all’insegna del dubbio, dell’autocritica, della tensione non risolta verso un significato sfuggente. In un simile spazio, relativo e frammentario, la letteratura può ancora trovare ancora il suo habitat. È a tale conclusione che approda la ricerca sul Moderno secondo Mario Luzi condotta nel capitolo finale del libro: «il tempo irritato e sconvolto», ha scritto infatti Luzi in Discorso naturale, «questo tempo tragico consente e tragicamente propizia la poesia». Difficile dire se Luzi avesse ragione o se quella frase possa ancora essere attuale; ma è vero, come scriveva Montale in Stile e tradizione quasi un secolo fa, che «non continua chi vuole la tradizione, ma chi può, talora chi meno lo sa».