Il biennio 1914-’15 segnò l’ingresso dell’Italia nella modernità politica. Decenni di ricerca storica non sono però riusciti a quantificare il consenso reale attorno all’entrata in guerra del paese. Fu davvero consenso diffuso? Oggi possiamo forse affermare che non è il mero dato quantitativo l’aspetto decisivo, quanto quello politico. Il vecchio modello liberale, la società dei notabili personificata da Giolitti, elitaria e separata dai destini della popolazione, stava definitivamente lasciando il posto ad una nuova forma politica, quella plasmata dalla società di massa. In quei mesi traumatici le masse, fossero maggioritarie o meno, s’imposero nel dibattito pubblico e lo determinarono. Il cuore dello scontro che si produsse in quei mesi non fu allora tra interventisti e neutralisti, ma tra quelle forze politiche che colsero questo cambiamento epocale e quelle che cercavano di difendere un modello storicamente in via di superamento. “In quei dieci mesi si consuma in Italia un passaggio storico d’ordine generale: dalla società dei notabili alla società di massa”: tale la questione, egregiamente espressa da Mario Isnenghi nel suo ultimo libro, Convertirsi alla guerra (Donzelli 2015, 20 euro). Un libro capace di spiegare il senso di una mobilitazione a favore dell’entrata in guerra vista come lo strumento per superare un vecchio modello di società ormai non più riformabile. Un “maggio radioso” percepito come tentativo di abbattere il vecchio Stato liberale. Non a caso, le “risorse per l’entrata in guerra”, come le definisce l’autore, si presentano assolutamente trasversali. Sinistra e destra cercano di intestarsi la direzione delle mobilitazioni, e anche le forze socialiste, schiacciate tra rifiuto della guerra e certo consenso popolare, alla fine cedono al ricatto “né aderendo, né sabotando”. Alla prova dei fatti, tali risorse si dimostreranno molto meno compatte di quanto fosse lecito aspettarsi visti gli umori della vigilia. Solo una ferrea limitazione di ogni possibilità di dissenso, l’applicazione rigorosa della legge marziale e della censura preventiva, il divieto di ogni possibilità di manifestare, impedirono al fronte interventista di sfaldarsi ai primi rovesci militari e alle prime difficoltà economiche del regime di guerra.

Il significato concreto della guerra non tarderà a manifestarsi. Immaginata come prolungamento delle guerre ottocentesche, i vertici politici non colgono il carattere industriale, massificato, totale che l’evento bellico porta con sé. Non solo il numero dei morti e feriti, quanto la pervasività generale che la guerra assume in ogni aspetto della vita sociale. La prima, vera, guerra di massa, spietata proprio perché tecnologica. La descrizione di Angelo Ventrone nel suo saggio Grande guerra e Novecento (Donzelli 2015, 22 euro), del significato profondo e materiale della guerra è il punto di forza del libro, capace di rinnovare un discorso storico attraverso il racconto dei “dimenticati dalla storia”: la vita nelle trincee, le sofferenze dei soldati, così come i civili nelle zone di frontiera, i prigionieri dei campi di internamento, i soldati mutilati o sfigurati nel corso dei combattimenti. Un sano, rigoroso e necessario ritorno alla materialità della guerra, della sua oggettività, quella lontana dalle retoriche belliciste, fatta di popolazioni sradicate e mandate al massacro in quella che sarà la più grande carneficina della popolazione italiana. Saranno proprio i traumi provocati nel conflitto, nei rapporti gerarchici, nello sradicamento sociale, nell’alienazione nelle trincee, che dissoderanno il terreno per la rottura politica post-bellica. Il biennio rosso e successivamente il fascismo altro non saranno che il tentativo di dare risposta all’impossibile ritorno alla normalità. Dopo quattro anni di guerra niente potrà più essere come prima. Un modello di società lasciava definitivamente il posto all’ingresso delle masse nelle vicende politiche. La modernità del Novecento sta tutta in questo tornante, e le forze politiche che lo capirono furono poi quelle che si affermarono in seguito, tanto riguardo alla vicenda del fascismo quanto a quella del secondo dopoguerra.