A bordo dell’imbarcazione che mercoledì si è rovesciata nello stretto di mare tra la Somalia e lo Yemen c’erano 83 uomini e 17 donne. Era partita dal porto somalo di Bosaso il giorno precedente e stava per arrivare lungo le coste yemenite dopo un viaggio di quasi 300 chilometri.

Si è ribaltata: 46 migranti, tutti etiopi, sono annegati; 16 sono ancora dispersi; gli altri sono stati portati in salvo dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim): si erano messi in viaggio nella speranza di trovare un lavoro nel ricco Golfo. Tappa obbligata lo Yemen, paese devastato da oltre tre anni di guerra, ridotto alla fame e privato dei mezzi basilari per tenere in piedi un’economia.

Usa parole forti il direttore locale delle operazioni della Oim, Mohammed Abdiker, dopo la strage, «una tragedia vergognosa»: «Oltre 7mila migranti poveri ogni mese intraprendono questo pericoloso viaggio; 100mila solo lo scorso anno. Sono trattati in modo atroce, vivono in condizioni orribili. Tutto questo deve finire».

I sopravvissuti al naufragio di mercoledì al largo delle coste dello Yemen (Foto: Oim)

La speranza che tutto finisca si fonda su basi fragili: da una parte la fame e la repressione, dall’altra la guerra. In mezzo una striscia di mare, il Golfo di Aden, che come il Mediterraneo – ma in un’indifferenza ancora maggiore – si è fatto cimitero: a gennaio 30 migranti somali ed etiopi sono annegati nelle stesse acque. Zero giubbotti di salvataggio, i trafficanti non ne distribuiscono.

L’agosto scorso sono stati gli scafisti a gettarli in acqua nello stretto di Bab al-Mandab: 106 morti, età media 16 anni. A marzo 2017 i missili sauditi avevano affondato un barcone: 42 morti.

Nel 2017 L’OIM ha soccorso quasi 3mila migranti dei 100mila arrivati: il 73% somali, il 25% etiopi, il 2% di altre nazionalità. Pochi giorni fa l’organizzazione imbarcava 101 etiopi, un terzo bambini, per riportarli dallo Yemen in Gibuti. Si trovavano ad Hodeidah, città portuale sulla costa occidentale da mesi bersagliata dagli incessanti raid aerei con cui i sauditi provano a strappare ai ribelli Houthi un’area strategica. È di ieri il rapporto Oxfam sulla città: «L’escalation rischia di bloccare l’ingresso di aiuti nel paese: da qui passa il 70% dei rifornimenti alimentari».

Una situazione ai limiti dell’assurdo: gli yemeniti fuggono dalle bombe di Riyadh verso il Corno d’Africa (soprattutto in Gibuti, dove sperano in un trattamento migliore per la vicinanza linguistica e culturale), gli africani fanno l’inverso. Perché hanno a disposizione poche informazioni, perché sperano di poter agevolmente attraversare il paese in guerra per raggiungere le ricche petromonarchie e mettersi al servizio, da semi-schiavi, del mercato nero.

Non sanno dei confini sauditi blindati e delle decine di migliaia di deportazioni di yemeniti e asiatici in corso a Riyadh, sotto lo slogan (banale) coniato dal principe ereditario Mohammed bin Salman: «Prima i sauditi».

La tratta migliore, per chi può, è quella tra Gibuti e Yemen, solo 20 chilometri. E costa di meno: 150 dollari. Dalla Somalia il prezzo sale, tra i 200 e i 250 dollari per un viaggio 15 volte più lungo. Si parte dai porti somali di Berbera e Lughaya o da Obock in Gibuti. Si attracca a Hodeidah, a ovest, o ad Aden e al-Mokha, a sud, entrambe zone di conflitto con la prima imbrigliata nella faida interna tra governativi e secessionisti meridionali e la seconda semi gestita da al-Qaeda.

E i migranti alla fine restano bloccati: a oggi sono oltre 270mila i migranti e i richiedenti asilo africani in Yemen (che si aggiungono ai quasi tre milioni di sfollati interni yemeniti). «Per i trafficanti sono solo una merce – dice Abdiker – Qualcosa di cui liberarsi presto e da cui guadagnare soldi facili. E se muoiono, ai trafficanti non importa, ci sono altre migliaia di persone disposte a pagare per i loro servizi».

Finiscono sotto le bombe o in centri di detenzione; quasi nessuno trova lavoro in un paese dove non esistono più infrastrutture o un’economia normale. Qualcosa si trova ad Aden, oggi sotto il controllo del governo del presidente Hadi, colpevole lui stesso di violenze contro i migranti in transito: ad aprile Human Rights Watch accusava le forze governative di abusi sessuali nei centri di detenzione ad Aden e gli Houthi di non fornire loro protezione o asilo a Hodeidah.

A ogni step del viaggio – è la denuncia di un mese fa delle Nazioni unite – i migranti subiscono abusi, stupri, torture in cambio di un riscatto. O vengono trasformati in schiavi, lavoro forzato senza stipendio.

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Dai Saud prima i raid, poi gli aiuti

Ieri, mentre l’aviazione saudita proseguiva nei bombardamenti sulla città portuale di Hodeidah per aprire la strada alle forze governative di terra, a Riyadh l’associazione di beneficenza di Re Salman firmava con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni quattro accordi di cooperazione: i sauditi doneranno 5 milioni di dollari in aiuti al paese che stanno bombardando e affamando.

Nelle stesse ore l’inviato speciale dell’Onu per lo Yemen, Martin Griffiths, completava la bozza di piano di pace che il Palazzo di Vetro presenterà alle parti (via Kuwait) la prossima settimana: cessate il fuoco e stop ai raid sauditi, disarmo dei ribelli Houthi e governo di transizione. In passato road map simili sono state affondate da Riyadh.