Rispetto a quanto accaduto nelle recenti tornate elettorali in Sassonia e Brandeburgo quella di domenica in Turingia registra non solo la tenuta, ma perfino l’avanzata della Linke, che in questo Land governava insieme alla Spd con l’evidente approvazione degli elettori. Primo partito, con oltre il 30 per cento, stabilisce un record. Percepita come un partito di “centro”, guidato da un amministratore che può vantare diversi successi, Bodo Ramelow, la Linke occupa qui una posizione non dissimile da quella che fu del Pci nell’ormai lontana stagione delle regioni rosse: la promessa di una rassicurante continuità delle prestazioni sociali e delle politiche occupazionali. Anche se il crollo del suo partner socialdemocratico rende ardua la costruzione di una maggioranza e financo di un governo di minoranza tollerato dalle destre moderate. La tendenza che sembra invece irreversibile è la frana dei grandi partiti popolari che all’Est assume caratteri rovinosi, per la Cdu ancor peggiori che per la Spd. Un’emorragia senza rimedio. E la strutturale impossibilità per i Verdi (che entrano per un pelo nel parlamento regionale) di prenderne il posto. Malgrado l’esplosione dei movimenti ecologisti, il partito verde è ancora ben lontano dall’obiettivo di diventare un nuovo partito di massa.

I quasi 12 punti perduti dalla Cdu di Annegret Kramp Karrenbauer sono in linea con un fenomeno che riguarda tutta l’Europa e non solo: il declino della destra centrista e liberale a tutto vantaggio di una destra nazionalista, autoritaria e xenofoba. Così come in Umbria Forza Italia è surclassata non solo dalla Lega, ma anche da Fratelli d’Italia, così in Turingia la Cdu viene sorpassata per la prima volta da Alternative für Deutschland. Anche se non ridotta a cespuglio come il partito del Cavaliere, la Cdu (altra storia e altro spessore) resiste strenuamente all’ipotesi di scendere a compromessi governativi con l’estrema destra che reclama sempre più insistentemente la sua fetta di potere. Tanto più che quest’ultima è guidata in Turingia da un fascista neanche troppo post, come Björn Höcke, leader della corrente più estrema (der Flügel) e permeabile alle formazioni neonaziste.

Il fenomeno decisamente più inquietante è proprio questo travaso inarrestabile tutto interno alla destra. Le speranze di arricchimento individuale, l’ottimismo liberista, i fasti dell’“imprenditore di sé stesso” sono finiti nel tritacarne della crisi e con essi il clima culturale e ideologico di un liberalismo accattivante, seduttivo, formalmente alla portata di tutti, i cui meccanismi di esclusione operavano sotto la superficie luccicante di una promessa generale di benessere. Nell’Est della Germania tutto questo si è manifestato nella maniera più esplicita e diretta, ma è la stessa parabola che riguarda anche il resto d’Europa.

Quella destra “edonista”, liberale, preoccupata delle forme e del contenimento dei conflitti, non sembra più essere all’altezza dei tempi. Viene quasi percepita come un elemento di disordine, incapace, per giunta, di proteggere dalle oscure minacce che provengono da un mondo sempre meno comprensibile e di cui si reclama disperatamente la semplificazione. Sovranità nazionale, regole, gerarchie, concezione organicista della società. La pretesa ingenuamente espressa da Berlusconi (ma non dai più avveduti democristiani tedeschi) di ricondurre alla moderazione questa destra radicalizzata è fuori dal tempo e dal novero delle possibilità concrete. Non sarà un ritorno alla cultura liberale più o meno classica a poter invertire la tendenza, meno che mai le insistenti conversioni liberiste delle sinistre. Forse solo quel cambio di passo, di cultura e di sfera pubblica che oggi solo nel procedere dei movimenti si lascia intravedere, potrebbe sbarrare la strada alla nuova vecchia destra.