Della riforma fiscale, definita «strutturale» dal presidente Draghi nel suo discorso d’insediamento alle Camere, non resta traccia. Intendiamoci, la legge delega verrà approvata, ma cambiata in peggio, aldilà di ogni aspettativa.

Il fisco italiano fa passi da gigante verso un sistema «proporzionale». Con la riduzione delle aliquote Irpef da quattro a tre e la conferma e l’estensione della flat tax viene di fatto sancito l’abbandono dei criteri di equità e progressività previsti dalla Costituzione. Il cosiddetto regime «duale» è sparito dai radar. Rimane una tassazione differenziata e di favore dei redditi da capitale e delle rendite finanziarie e immobiliari.

Sul Catasto, indietro tutta. La revisione degli estimi non avrà alcun effetto pratico. Non è tempo di aumentare le tasse. Le ville con piscina, accatastate come case rurali, e gli immobili ristrutturati nei centri storici, pur con valori aggiornati, continueranno a pagare imposte più basse degli appartamenti nei quartieri di periferia. Non è tempo nemmeno di far pagare un po’ di più chi eredita grandi fortune, e guai a parlare di una patrimoniale sui super ricchi.

Anche chi evade può stare tranquillo. Lavoratori autonomi, imprenditori e detentori di rendite praticano una sorta di laissez faire fiscale sotto lo sguardo benevolo delle istituzioni. Una detassazione “fai da te”, illegale, ma tollerata, che sottrae all’erario 100 miliardi ogni anno. Un taglio delle imposte non in termini di diritto, ma di fatto. Finora la privacy, la protezione dei dati personali, ha sempre avuto la meglio sul pubblico interesse. L’evasione rappresenta il pegno che i governi pagano ai settori arretrati, ma non marginali, del nostro capitalismo. Senza considerare che elusione ed evasione introducono nell’economia distorsioni strutturali molto gravi. Capita spesso, infatti, che proprio coloro che non pagano le imposte o che occultano i ricavi, siano gli stessi che poi sfruttano maggiormente gli aiuti pubblici.

La questione delle tax expenditures (detrazioni, incentivi, sussidi, bonus) è stata accantonata, quasi fosse irrilevante e non, invece, una delle cause dello smantellamento dello Stato sociale. Le spese fiscali alterano e rendono poco trasparente il «rapporto d’imposta» tra Stato e cittadini. Si sono moltiplicate a dismisura (70 nel solo periodo della pandemia) e hanno contribuito ad alimentare interessi particolari e corporativi. Attraverso una iperproduzione normativa, il fisco si è frammentato e scomposto, ha spostato una grossa fetta di spesa pubblica dai servizi sociali al finanziamento di bonus e sconti vari, sostenendo lo sviluppo del mercato privato in molti settori economici. A trarne vantaggio sono stati i ceti più abbienti a discapito degli «incapienti», le famiglie più bisognose.

La redazione consiglia:
Catasto, Conte flirta con Salvini: «No a nuove tasse sulla casa»

Alla politica dei bonus ha corrisposto, dunque, un progressivo svuotamento dello Stato sociale. Le detrazioni sui mutui casa, per fare un esempio concreto, rappresentano senz’altro un aiuto per le famiglie che scelgono di acquistare un’abitazione. Nel caso specifico, il fisco asseconda la spinta alla casa in proprietà e favorisce il mercato immobiliare, le banche e la rendita fondiaria. Non c’entra nulla questa scelta con la crisi del mercato della locazione sociale o con la mancanza di investimenti nell’edilizia popolare? E qual è la ratio per cui, da un lato, si spendono 20 miliardi in eco-bonus per le case di proprietari che, in base al reddito, sarebbero nelle condizioni di pagarsi autonomamente i costi della ristrutturazione e, dall’altro, le famiglie sfrattate a basso reddito sono abbandonate al loro destino?

Le tax expenditures, in conclusione, sono diventate strumenti fondamentali per orientare le scelte e i comportamenti dei cittadini sulla base delle convenienze del «libero mercato». L’aggravamento delle disuguaglianze sociali è spesso determinato da un uso deformato e improprio della leva fiscale. Una cosa è certa. Finora decine di miliardi sono stati tolti allo Stato sociale e dirottati verso interessi privati, corporativi e clientelari. La crisi dello Stato sociale è, insomma, strettamente collegata alla crisi dello Stato fiscale.

Ci troviamo ora nella scomoda situazione per cui i margini di indebitamento si sono esauriti (durante la pandemia vi sono stati 200 miliardi di scostamenti di bilancio) e, d’altro canto, la spesa pubblica si amplia strutturalmente per effetto degli investimenti del Pnrr, delle maggiori spese militari e di una spesa sociale non comprimibile più di tanto. Nessuno dice come risolvere questo dilemma.

Il Def scommette sull’incremento delle entrate come effetto di una crescita del Pil, sia pure ridimensionata. Non appare credibile. Con la legge delega, intanto, è venuto meno l’obiettivo di riannodare i fili spezzati tra prelievo fiscale e solidarietà sociale. La destra giustamente canta vittoria e si prepara ad alzare il tiro, rivendicando la «pace fiscale» ovvero altri condoni e sanatorie. La sinistra di governo tace e acconsente. Un’importante occasione di cambiamento è stata persa.