Due ruote e ambientalismo, greeneconomy e delocalizzazione. Sì, delocalizzazione, ma all’incontrario: dalla Cina all’Italia.

Questa è una storia in controtendenza, forse un flebile segnale che indica una via possibile per uscire dalla crisi che ancora attanaglia l’Italia e l’Europa. È la storia di un piccolo imprenditore che con intelligenza è tornato sui suoi passi e ha deciso di scommettere sul proprio Paese e sulla propria città, Genova, capitale italiana degli scooteristi. Non per buonismo e neppure per affetto, ma solo e soltanto per salvare la sua azienda che nel 2006 era ormai sull’orlo del fallimento.

Dall’elettronica è passato a produrre motocicli elettrici, e oggi si occupa anche di infrastrutture per la ricarica urbana. Con un «doppio ritorno», spiega, perché al bilancio che da rosso torna in attivo si aggiunge un’economia locale che si rimette in moto, uno stile di vita che cambia, la speranza che si riaccende.

«A quei tempi viaggiavo molto in Cina e mentre riflettevo su come uscire dalla catastrofe che si preannunciava notavo la selva di motorini elettrici che si muovevano disinvoltamente nelle grandi città». Dal 1985 Walter Pilloni, classe 1955, aveva prodotto con la sua Teknit schede elettroniche «arrivando a fatturare 6 miliardi di lire e dando lavoro a 27 persone», racconta.

Ma le commesse via via diminuivano e il bilancio era ormai perennemente in rosso. In un percorso condiviso dalla Uilm, praticamente l’unico sindacato presente in azienda, l’imprenditore decide allora di ricorrere alla mobilità per 15 dipendenti e di tentare il colpo di fortuna. Riconversione o morte: «Contattai alcuni ingegneri cinesi di Jiangmen, un paesino nei pressi di Shanghai, e con loro sviluppammo il progetto di uno scooter elettrico, l’Ecojumbo. Lo avrei prodotto lì e commercializzato in Italia».

Ma appena messo su il nuovo ramo d’azienda, Pilloni si accorge subito che così non sarebbe andato lontano: «Nel 2006 mi risultava chiaro che uno scooter prodotto in Cina era poco gradito al mercato». Il made in Italy, soprattutto per i motori, ha tutt’altro appeal. E allora nel giro di pochi anni inverte la rotta, almeno in parte, almeno per ora. «Abbiamo quindi lasciato lì la fabbrica cinese e trasferito a Genova la linea di assemblaggio».

Una mossa che basta per ottenere tutte le autorizzazioni per l’omologazione dei veicoli in Europa e in Italia. Così, nell’ottobre 2012 inaugura la sede del nuovo progetto Ecomission: uno stabilimento a Genova Sestri Ponente con 2000 metri quadri dove dislocare «la prima linea di assemblaggi di scooter elettrici made in Italy». Oggi il bilancio è decisamente entusiasmante: «L’anno scorso abbiamo venduto un centinaio di moto, quest’anno il doppio ma siamo in affanno per il crescente numero di richieste da tutta Italia».

Oggi fattura 1,3 milioni di euro, i conti in rosso sono solo un ricordo e ha ricominciato ad assumere personale specializzato, come confermano anche i sindacati («Non ci risultano contratti atipici o forme di precariato», racconta Francesco Manzo, della Uilm di Genova; mentre la Fiom, che non è presente in fabbrica, non ha mai avuto segnalazioni particolari sull’azienda). «Pian piano stiamo ricominciando a produrre anche alcune componenti in Italia, come le ruote, o le selle che ora sono realizzate da un piccolo artigiano genovese che era sull’orlo del fallimento».

Certamente è stato necessario che alle doti personali di intraprendenza e coraggio dell’imprenditore si aggiungesse una buona dose di fortuna, per avere a disposizione un patrimonio cash da investire, senza passare per lo strozzinaggio delle banche. «Si possono avere anche delle bellissime idee ma se non hai i soldi nel taschino, come diceva mio nonno, non vai da nessuna parte con le banche – ragiona Pilloni – Quando sento di imprenditori che si suicidano capisco benissimo cosa provano. È un fenomeno che va arginato anche con l’assistenza psicologica, ma soprattutto non lasciandoli soli».

«Il costo dell’energia e dei carburanti in Cina è molto più basso che da noi, per non parlare degli operai cinesi che guadagnano appena 200 dollari – racconta l’imprenditore – una segretaria molto brava che conosce varie lingue prende circa 400 dollari al mese, mentre in Italia lo stipendio medio di un operaio è di 1400 euro. Inoltre il governo cinese premia le esportazioni con il 17% del fatturato esportato mentre sulla componentistica importata in Italia si pagano una serie considerevole di tasse».

Eppure «non sono un pazzo», dice. Oltre ai finanziamenti della comunità europea e della regione Liguria per alcune particolari produzioni, c’è anche «un doppio ritorno: il nostro volume d’affari è in crescita e l’economia locale si rimette in moto, facendo un atto di fede verso un Paese in profondissima crisi e verso gli imprenditori locali che hanno intelligenza e energia». Non ha dubbi, Pilloni: «L’eco business è il futuro».