«Cammina, non correre», si deve essere detto il premier giapponese Shinzo Abe a fine marzo scorso quando, dopo angosce ed esitazioni e oramai nel pieno della pandemia da Covid19, ha infine deciso di rinviare al prossimo anno i Giochi olimpici che si sarebbero dovuti tenere nell’arcipelago quest’estate. A oggi, le nuove date previste sono 23 luglio – 8 agosto 2021 ma, data la situazione sanitaria globale, sarà necessario un ridimensionamento in base a un nuovo piano d’azione che sarà reso noto solo dopo l’autunno.

CERTO, l’aria è molto cambiata da quando Charles Walters girò Cammina, non correre (1966) durante le ultime olimpiadi estive svoltesi a Tokyo nel 1964, le diciottesime dell’era moderna, le prime del continente asiatico. Allora, l’evento sportivo fornì al paese, nel pieno del suo boom economico postbellico, la possibilità di mostrare al mondo le proprie capacità organizzative, infrastrutturali, tecnologiche e spettacolari. Oggi si può più che altro cavalcare la tigre sperando di non essere disarcionati. E il modo in cui le olimpiadi giapponesi di ieri e di oggi sono presenti nel cinema ci permette di misurare la distanza tra l’entusiasmo della prima volta e il timore apocalittico della seconda.

IL FILM di Walters è un remake di Molta brigata vita beata (1943) di George Stevens che adatta al contesto olimpico il problema dell’emergenza abitativa dovuta nell’originale alla guerra e alla sovrappopolazione urbana. Si tratta di una pimpante commedia romantica con Cary Grant che, nel suo ultimo ruolo al cinema, interpreta un Sir britannico in affari con un’impresa nipponica produttrice, ovviamente, di transistor. L’imprenditore giunge nella città effervescente di delirio olimpico due giorni prima del previsto ma nell’hotel che ha prenotato non ci sono camere disponibili e così si mette in cerca di una sistemazione alternativa. La cosa si rivela molto difficile perché il «grande evento» ha saturato la ricettività. Così lo scaltro Sir finisce per condividere l’alloggetto di una giovane connazionale (Samantha Eggar) incontrata tramite l’ambasciata. Ma lei non vuole saperne di averlo tra i piedi ed è ancor meno contenta quando scopre che Grant ha subaffittato metà della propria stanza a un giovane atleta americano (Jim Hutton) di cui solo alla fine si scopre l’ancheggiante specialità sportiva. La rilettura queer della filmografia di Cary Grant ha avuto buon gioco a rivedere tendenziosamente film come questo alla luce della complessa maschilità dell’attore. Il personaggio di Grant conosce il giovane atleta per caso e scopre che anche lui è giunto a Tokyo due giorni prima del previsto e non può ancora insediarsi nel villaggio olimpico.

Grant gli offre di condividere la propria camera con la scusa che il ragazzo gli ricorda se stesso alla sua età e per suggellare la neonata amicizia lo trascina a farsi una bella sauna. Poiché l’omoerotismo all’epoca non si esprimeva a Hollywood se non indirettamente, il soggiorno dei tre nella stessa casa è il trionfo del «desiderio triangolare» con Grant nei panni del sensale che fa di tutto perché i due giovani coinquilini alla fine si sposino.
Il film che distilla la quintessenza di Tokyo 1964 è però Le olimpiadi di Tokyo (1965) di Kon Ichikawa, documentario su commissione che prese come punto di riferimento Olympia di Leni Riefenstahl per poi allontanarsene e sviluppare una propria estetica fatta non solo di trionfi ma anche di sconfitte e di dettagli «rubati» ai margini delle competizioni: le attese, gli allenamenti, la mensa, i piedi piagati dei corridori.

UN POEMA visivo magniloquente di quasi tre ore capace di alternare campi lunghi e stretti, di documentare l’evento di massa ma anche di spingersi con innovativi teleobiettivi nell’universo emotivo degli atleti, nella ricerca delle loro singolarità. Ichikawa fu criticato per aver interpretato la commissione in modo non sufficientemente nazionalista e invitato a includere nel montaggio definitivo una maggiore celebrazione dei medagliati giapponesi. E lui lo fece in modo così intelligente da far capire a chi lo voglia che si tratta della risposta a una richiesta. Si pensi alla grazia con cui inserisce il bronzo nella maratona a Kokichi Tsuburaya nella lunga sequenza finale dedicata alla caparbia eroica dell’etiope Abebe Bikila, «figlio di un agricoltore», che già aveva conquistato l’Oro a Roma 1960.

Eppure, il fantasma del fallimento, nemesi di ogni impresa titanica, minacciò anche quell’olimpiade, o meglio, la sua cerimonia inaugurale. In un’intervista realizzata a metà degli anni ’80, Kon Ichikawa raccontò che il giorno prima dell’apertura dei Giochi, su Tokyo si scatenò una violentissima tempesta: «Ero preoccupato e chiamai il presidente del comitato organizzativo per chiedergli che ne sarebbe stato dell’inaugurazione se la tempesta fosse continuata. Lui mi disse che sarebbe stata cancellata. Io gli chiesi se uno slittamento sarebbe stato possibile ma lui mi disse di no perché altrimenti tutte le gare si sarebbero dovute spostare. La cerimonia doveva essere un momento importante del mio film e così gli chiesi di riconsiderare la sua decisione. Fortunatamente, il giorno dopo il sole splendeva e io andai allo stadio con la mia grossa cinepresa Eyemo, presi posto sugli spalti e quando la cerimonia iniziò rimasi così stregato dall’atmosfera che mi dimenticai di filmare». La parata militaresca delle delegazioni fu infatti ripresa dal resto della troupe.

IL RISCHIO che salti la cerimonia inaugurale di Tokyo 2020 è invece presente nel film di animazione Hirune Hime / Napping principess (2017) di Kenji Kamiyama. Alla cerimonia, gli atleti dovrebbero entrare nello stadio su veicoli a guida automatica ma la proprietà del software scatena una lotta di potere che alla fine si risolverà in un lieto fine e in un’inaugurazione trionfale. Così non avviene invece in Akira (1988), il classico post-apocalittico e visionario di Katsuhiro Otomo che già nel 1988 ipotizzava un’olimpiade giapponese proprio nel 2020. Ad aprile era prevista l’uscita della versione Imax in 4K uscita poi a giugno ma durante la pandemia si è riparlato del film anche perché ambientato nel 2019 in una «Neo-Tokyo» pre-olimpica in cui si agitano movimenti di opposizione al grande evento: il graffito su un muro della città che invoca la cancellazione dei Giochi è diventato un hashtag diffuso sui social allo scoppio dell’emergenza coronavirus, prima della risoluzione del premier.

IL DUELLO finale che vede scontrarsi il capo dell’esercito malefico e il potentissimo Tetsuo avviene nello stadio olimpico ancora in costruzione. Il giovane si rifugia nell’arena, siede sul trono di pietra sovrastato dai cinque cerchi e dal suo braccio cyborg fuoriescono circuiti ibridi di materia organica e inorganica che si sviluppano inghiottendo ogni cosa, radendo al suolo lo stadio e tutto il quartiere in via di riqualificazione. Otomo ritrae le olimpiadi come un’occasione di speculazione edilizia, un’arma di distrazione di massa e di costruzione del consenso. Anche lo stesso Kon Ichikawa tempo dopo aver girato il film lamentava la crescente idolatria per gli atleti e la trasformazione dei Giochi in una manifestazione presa d’assalto da interessi mercantili. Interessi a causa dei quali, l’edizione posposta non cambierà nome, essendo il merchandise – spillette, bracciali, t-shirt e cappellini – già stampato con il marchio «Tokyo 2020». Anche se con tutta probabilità sarà messa sul mercato nuova paccottiglia aggiornata, quegli oggetti circoleranno comunque come se il tempo non fosse passato e l’archeologia del futuro dovrà saperli interpretare. Con il loro anacronismo, potrebbero anche trasformarsi in un monito, un invito a dilatare i tempi, a rallentare la corsa e a ridimensionare la retorica della crescita iscritta nello stesso motto olimpico «Più veloce, più in alto, più forte».