Una folla di giovani e meno giovani riempie ancora una volta piazza Taksim, simbolo della rivoluzione di Gezi Park e teatro della repressione. «Lunga vita alla nostra causa e alla nostra resistenza», intonano a gran voce mentre sollevano cartelli con le scritte, «rivogliamo il nostro lavoro» e «governo illegale». Gli agenti di polizia restano in disparte, ai margini della piazza.

LA PROTESTA È PACIFICA, ma decisa. Alcuni mostrano le foto di Nuriye Gülmen e Semih Özakça, divenute ormai simbolo della lotta contro l’oppressione; «Ridategli il lavoro», «Non siete soli», continuano a ripetere. È anche per loro che la Turchia si sta mobilitando. Da settimane manifestazioni spontanee vanno avanti nelle maggiori città del paese.

Nuriye era docente universitaria, mentre Semih, insegnava in una scuola elementare. Entrambi sono stati licenziati, come altri 138.147 tra funzionari, insegnanti e accademici, nel corso delle purghe volute da Erdogan dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016. Tra i primi a inscenare proteste, i due insegnanti si ritrovavano a Yuksel, una piccola stradina del centro di Ankara, per difendere i propri diritti. «Nuriye è stata arrestata 15 volte, e 15 volte è tornata in strada per chiedere al governo di ridarle il lavoro», racconta la giornalista turca Günes Seferoglu. Al 60° giorno di protesta entrambi hanno avviato lo sciopero della fame. «A quel punto sono diventati il simbolo della resistenza – continua Günes – Il loro gesto ha dato forza a migliaia di altri che hanno cominciato a seguirli in piazza».

IL SENTIMENTO di forte solidarietà da parte della popolazione, ha però scatenato la dura repressione del governo. Il 23 maggio di quest’anno, Nuriye e Semih sono stati arrestati ad Ankara con l’accusa di «fomentare il caos». In carcere stanno continuando lo sciopero della fame, oggi è il 94esimo giorno, e le loro condizioni di salute sono sempre più critiche. «Vanno avanti solo con acqua e zucchero. Nuriye si muove sulla sedia a rotelle perché non riesce più a camminare, ed entrambi cominciano a perdere lucidità», spiega Ebru Timtik, il loro avvocato, che incontriamo durante la protesta di Taksim.

L’8 giugno, due giorni prima di scendere in piazza, Ebru, in una piccola aula del tribunale di Caglayan a Istanbul, ricordava anche al giudice le pessime condizioni di salute dei suoi assistiti e attaccava le crescenti violazioni di diritti umani nel Paese.

IL DISCORSO PERÒ VA OLTRE la storia di Nuriye e Semih. Ebru infatti è lì per difendere anche se stessa. A gennaio del 2013 è stata arrestata insieme ad altri 9 avvocati. L’accusa, essere membro dell’organizzazione terroristica di Fethullah Gullen, l’imam che secondo il presidente turco Erdogan avrebbe ideato il fallito golpe.

Ebru è stata in prigione 14 mesi, poi la scarcerazione. Ma il processo, giunto alla settima udienza, sembra non avere mai fine. «Cercano in tutti i modi di allungare i tempi» dice Günes, seduta al nostro fianco nell’aula. Il tono determinato con cui si rivolge al giudice che la guarda impassibile, ci distrae: «Smettetela di dire che siamo membri di organizzazioni terroristiche. Sapete tutti la verità. Il punto è che non accettiamo atteggiamenti fascisti, per questo ci hanno arrestato».

Günes il meccanismo: le accuse mosse ad Ebru sono supportate da testimoni fantasma che nessuno ha mai visto. Secondo la giornalista, i teste sarebbero stati costretti a deporre false testimonianze sotto minaccia di tortura.

IN TUTTA LA TURCHIA quasi 3mila tra giudici, avvocati e procuratori sono in carcere, a molti di loro è stata revocata la licenza. «La maggior parte di quelli che invece sono seduti ancora al loro posto vive nella paura di perdere il lavoro o di essere arrestati, per queste ragioni si adattano alle disposizioni del governo», ci spiega Ebru in un momento di pausa prima di rientrare nell’aula.

L’UDIENZA CONTINUA. A prendere la parola sono gli avvocati difensori che attaccano con determinazione il giudice. Le parole sono dure, ma l’atmosfera non è tesa. A quattro anni dall’inizio del processo, in aula tutti conoscono il proprio ruolo. L’impasse sembra creato ad hoc. I continui rinvii, le gravi accuse, l’indifferenza dei giudici, la stagnante burocrazia che aleggia sugli atti, sono gli ingredienti di un meccanismo a spirale che mira ad annientare la resistenza degli attori di questo teatro.

IN MEZZO AL PUBBLICO ci sono anche molti avvocati europei. «Siamo francesi, spagnoli, italiani, tedeschi – ci dice una di loro -, veniamo qui da quando il processo è cominciato per sostenere i nostri colleghi e difendere, con la nostra presenza, i diritti fondamentali dell’essere umano». Si rientra in aula. La parola va al giudice che liquida tutti velocemente, fissando l’ennesima udienza.

USCIAMO DAL TRIBUNALE insieme a Ebru. «Lo chiamano palazzo di giustizia, ma sono solo pietre e pilastri – gli occhi si abbassano e il sentimento di amarezza prende per un attimo il sopravvento – Sono molto preoccupata per il futuro del mio paese, non per me. Io sono una combattente».

Una combattente che ha subito i soprusi delle carceri turche, «Ci hanno preso a calci, ci hanno legato, ci buttavano a terra, sedendosi sopra di noi. Si rifiutavano persino di darci un bicchiere d’acqua». Ma la prigione e le torture non sono riuscite ad annientare la determinazione e la speranza di Ebru. La sua forza nasce da una consapevolezza, «Ho il supporto della mia grande famiglia, di tutti i miei colleghi e clienti, come Nuriye e Semih. Persone che ogni giorno lottano per la verità, la libertà e la giustizia».