La grande stagione del romanzo modernista ha affermato che è inutile stoccare il tempo in comparti, isolare ciò che è passato da ciò che è invece presente o futuro. La coscienza fa mulinelli di vento, porta polvere di tempo dove le pare. Nell’indimenticabile finale dei Morti di Joyce, Gabriel Conroy guarda sua moglie addormentata, mentre fuori nevica, ma quel che vede è il fragile Michael Furey, che lei amò in giovinezza e che nel pieno di quella giovinezza morì. È così che Gabriel Conroy si accorge, per via epifanica, di quanto basso sia il gradino del podio sul quale è montato quando si è sposato con Gretta.
In quella scena così silenziosa e frastornante insieme, James Joyce dice che la giovinezza non se ne va mai, che sta sempre lì acquattata, e poi di colpo, inaspettata, butta giù la porta. Tutto è possibile, nella coscienza, siamo un nastro senza né capo né coda. Gabriel Conroy, e Joyce con lui, non considera neanche lontanamente il fatto che la Gretta di fronte a lui non sia la stessa che amò Michael: solo per convenzione diciamo di essere la stessa persona che un tempo siamo stati.

Gli anni invisibili, dello scrittore boliviano Rodrigo Hasbún (Sur, traduzione di Giulia Zavagna, pp. 190, euro 16,50) mette al centro del romanzo questo dubbio, pur senza esplicitarlo. È davvero possibile che i due quarantenni che si incontrano in un locale di Houston siano gli stessi che più di vent’anni prima, adolescenti in Bolivia, vissero uguali sconvolgenti, quei giorni di un marzo che cambiò le loro vite per sempre? Seduti a un tavolino che si fa sempre più alcolico, si guardano, si studiano, si interrogano. Qual è la distanza tra quel marzo che l’uomo ha tentato di bloccare in un romanzo e questo inverno texano? Lei si è staccata dalle pagine del libro, dai loro diciassette anni e da un aborto finito male, poi ha chiesto udienza a chi scrive. È il personaggio che chiede un colloquio al suo autore, o è la persona che vuole ridargli indietro i panni della finzione e rivendicare una storia diversa?

Rodrigo Hasbún sa come gettare le emozioni nella fornace della scrittura ma poi mescola le carte, porta il lettore a camminare sul crinale tra ciò che è vero e ciò che non lo è. Qual è la vita dal vero? Quella che traslocata nella memoria, quella presente o quella che diventa una storia?
Nel suo andirivieni tra due Americhe a due velocità, Gli anni invisibili racconta, nei fatti, come la vita sia a volte così incandescente che solo le pinze della finzione possono aiutare a maneggiarla senza raffreddarla. Solo la finzione è in grado di raggiungere le temperature a cui la vita ci espone, ma con il bonus di una forma che nasce, e si modella affinché ci si possa avere a che fare davvero. «Quando la cassetta finisce resta in silenzio, incapace di ignorare la sensazione che lui e Joan siano meno reali dei personaggi del film, la sensazione che i personaggi del film esistano più di loro».

I ragazzi di Rodrigo Hasbún sono – come tutti i ragazzi e come quelli di Roberto Bolaño, di cui si sentono gli echi – individui precipitati dentro il crepaccio dell’adolescenza: considerano per sempre ogni cosa, benché tutto scompaia, essendo fugace, a dispetto dello stereotipo che vorrebbe quell’età come votata alla superficie. I quarantenni che portano il loro stesso nome fronteggiano i ragazzi, in questo romanzo, così teso e sofferto, dall’altra parte di quel crepaccio. Sono reduci, sembra dire Hasbún, perché l’adolescenza è spesso una carneficina, e diventare adulti implica il riuscire a sopravvivere a quello sproposito. Ma in mezzo ci sono più di venti anni, e milioni di cellule nuove, ciò che fa si che nessuno possa mai garantire che si tratti degli stessi esseri umani, e non invece due esemplari distinti, di cui uno scrive la storia e l’altro diventa finzione.