Se non si vuole risalire alla fine della Corona di Aragona nel 1713 o alla proclamazione dello «Stato catalano dentro la Repubblica federale spagnola» del 1934, il momento d’inizio dell’attuale crisi politico-istituzionale è il 28 giugno 2010.

È IL GIORNO in cui la Corte costituzionale emette la sentenza sullo Statuto di autonomia della Catalogna approvato nel 2006, secondo le procedure previste, sia dal Parlamento centrale sia dai cittadini catalani con un referendum.

Lo Statuto era frutto di un’intesa «bipartisan» fra socialisti e nazionalisti di Convergència i Unió (CiU), le due principali forze in Catalogna, con la benedizione del governo del socialista José Luis Zapatero. Su di esso pendeva però la spada di Damocle del ricorso del Partido popular (Pp). La sentenza della Corte fu dirompente: disse no a una serie di articoli ad alto valore simbolico, tra cui quelli che si riferivano alla Catalogna come a una «nazione» e al catalano come lingua preminente. Il mondo politico di Barcellona, con l’eccezione del Pp e di Ciudadanos, lo vide come un affronto e chiamò alla mobilitazione.

ALLA GUIDA DEL GOVERNO catalano c’erano i socialisti dell’allora president José Montilla in coalizione con Esquerra republicana e gli ecologisti di Icv, mentre principale gruppo di opposizione erano i nazionalisti di CiU: sfilarono tutti insieme, due settimane dopo la risoluzione della Corte, in un grande corteo all’insegna del «Siamo una nazione, decidiamo noi».

NESSUNA DELLE FORZE in campo, in quel momento, sosteneva l’indipendenza. Nemmeno Esquerra, che si trovava peraltro in una profonda crisi: la separazione dal resto della Spagna era un’opzione difesa da settori ultra-minoritari. Alle elezioni regionali del successivo autunno, i nazionalisti di CiU puntarono sulla parola d’ordine del «patto fiscale»: un modo per blindare le finanze catalane e diminuire i trasferimenti allo stato. Vinsero, ma poterono governare solo grazie all’astensione dei socialisti, diventati a Barcellona principale partito di opposizione. Quella legislatura durò due anni, durante i quali cambiò completamente lo scenario politico dell’intero Paese.

A Madrid il dialogante Zapatero era uscito di scena, lasciando il posto al centralista Mariano Rajoy, forte della maggioranza assoluta. La crisi economico-finanziaria mordeva in tutto il Paese, e gli indignados irrompevano sulla scena.

IN QUEL CONTESTO politico-sociale le manifestazioni secessioniste cominciarono a crescere, e una parte della politica catalana registrò il mutamento d’umore. Decidendo di cavalcarlo. Il parlamento di Barcellona approvò la sua prima mozione a favore di una consultazione sull’indipendenza: era il settembre del 2012.

Lì finisce il «compromesso storico» fra socialisti e nazionalisti di CiU: il 2006 dell’approvazione dello Statuto è ormai lontano quasi quanto la guerra del 1713. La formazione nazionalista, guidata prima da Artur Mas e ora dal president Puigdemont, cambia pelle e nome, sposando la causa della secessione. Una «rinascita» che aiuta a sviare l’attenzione dagli scandali di corruzione. Solo una parte resta sulle posizioni autonomiste, ma in fretta si dissolve: lo spazio per un nazionalismo non indipendentista ormai non c’è più.