Molto si è detto sul potere taumaturgico del cosiddetto Quantitative easing, ma alcuni scogli presenti sul piano dell’economia reale ne rendono incerto il carattere risolutivo della crisi. Non perché il Qe non possa favorire la stabilizzazione finanziaria e l’ulteriore riduzione della spesa sui debiti sovrani, ma in quanto ad esso rischiano di essere affidati compiti spropositati. Il teorema prevalente sostiene che l’immissione di massa monetaria nel sistema dovrebbe favorire il finanziamento degli investimenti, dunque la crescita della produzione, poi i consumi e infine la ripresa nel suo insieme.

In effetti aumentare il numero di euro in circolazione consente un abbassamento del suo valore e favorisce quindi le esportazioni, rischiando, però, di innescare una politica che in gergo è chiamata di beggar thy neighbor (del ruba mazzo), cioè una politica mercantilista di svalutazione competitiva fondata su una pericolosa rincorsa al ribasso di prezzi e costi. La massa monetaria, a partire dalle esportazioni, dovrebbe far da volano per l’economia reale e non fermarsi unicamente a quella finanziaria, ma sarà davvero così? Il fatto che tale immissione monetaria passi attraverso il sistema bancario privato lascia molti dubbi.

Due sono le possibili strade a cui darà vita il Qe.

La prima, ben espressa sulle colonne di questo giornale da Manfredi De Leo, prevede che in questa fase i titoli pubblici detenuti dal sistema creditizio saranno progressivamente considerati alla stregua di titoli privati, con regole stringenti su garanzie e percentuali di possesso rispetto agli investimenti complessivi di ciascuna banca, tanto da indurre quest’ultime a venderne una quota considerevole, prevedibilmente identica a quella messa in conto con gli acquisti del Qe dalla Bce. De Leo definisce questa operazione della Banca di Draghi «una grande abbuffata» che la trasformerà nel principale creditore di titoli pubblici dell’eurozona, aumentandone sostanzialmente il suo potere.

La seconda strada, solo parzialmente in contraddizione con la prima, prevede che il sistema bancario europeo non intenda vendere così massicciamente i titoli pubblici in suo possesso. Cioè che il Qe vada oltre gli interessi del sistema finanziario stesso. Ci sono indicazioni sul fatto che non solo il sistema bancario, ma fondi pensione e assicurazioni, non sarebbero così desiderosi di vendere i loro titoli pubblici alla Bce. Venderli per tornare a investire nell’economia reale non è scontato, in quanto poco conveniente.

Non è un caso che il piano Tltro, ideato per tornare a scommettere su imprese e cittadini, sia andato ben al di sotto delle attese, con richieste di finanziamento delle banche inferiori a quelle preventivate, nonostante interessi risibili.

La crisi dell’economia reale ha determinato anche una contrazione della domanda di credito, aggravata da parametri più restrittivi delle banche nell’elargire credito. Banca d’Italia rende noto che nel gennaio scorso la contrazione del credito per le società non finanziarie è stata del 2,8% su base annua.

Esiste una platea di venditori di titoli pubblici sufficiente per 60 miliardi al mese (la cifra per cui la Bce si è impegnata)? Indubbiamente la scarsità di venditori favorirà la discesa del valore dei titoli pubblici, ma a oggi sui mercati finanziari circa 1.200 miliardi sono investiti in titoli con tassi negativi, a dimostrazione di una propensione a rimetterci qualcosa pur di parcheggiare la liquidità al sicuro.

Il problema allora resta l’economia reale, espedienti di tipo monetario non sono sufficienti.

Negli Usa perlomeno la ripresa, per quanto instabile e al di sotto delle necessità, è stata realizzata affiancando allo stampar moneta una significativa spesa pubblica in deficit. Ma nel vecchio continente non è consentito.