Nella sarabanda della carta stampata che slavina ogni giorno nei supermarket, versus «librerie», con ondate di capolavori letterari dovuti a plotoni di geniali scriventi, spiazza l’attenzione sorprendere, come affiorato dalla spuma di una risacca, Il Monte Analogo di René Daumal, riproposto da Adelphi a cura di Claudio Rugafiori («Biblioteca», pp. 143, e 18,00) in una nuova edizione riveduta e ampliata (la prima risale al 1968).
«Sotto le parvenze di un romanzo d’ avventure, o di un racconto fantastico, Il Monte Analogo ci offre un itinerario minuzioso, lentamente maturato nelle esperienze dell’autore, verso un centro, sentito come liberazione della persona da ogni suo limite. Con la leggerezza propria del saggio, facendo uso di storie, canzoni, deduzioni, miti e dimostrazioni, Daumal trasporta il lettore nel regno dell’analogia, dove niente è vero ma tutto è veridico, attraverso un metodo che fa cadere i nostri schemi difensivi e ci porta a contemplare con occhi nuovi il nostro paesaggio interiore». Non sarà troppo per i contemporanei leggenti di storytelling?
Opera iniziatica e metafora del viaggio alla ricerca dell’autenticità dell’essere, Il monte Analogo fu pubblicato per la prima volta nel 1952. Il suo autore, Daumal, era morto nel 1944, lasciando l’opera «non finita», estremo esito di una forsennata ricerca «esistenziale» (ma è riduttivo) iniziata da Daumal con un gruppetto di liceali che dal 1928 al 1930 aveva dato vita a una rivista, «Le Grand Jeu», che si era subito trovata a collidere e misurarsi con la nascente ondata del surrealismo. La storia è tuttavia ben più complessa pur nella sua sorprendete ovvia lucidità. La «banda» del «Grand Jeu» voleva essere una «comunità iniziatica» in cui ognuno dei suoi membri, qualsiasi cosa facesse, doveva compierla con l’ostinazione di mantenere una unità spirituale, diffondendo un messaggio capace di scuotere il pensiero.
Daumal, appena ventenne, era lo «spirito» del «Grand Jeu», a cui s’erano affiliati il poeta Roger Gilbert-Leconte, Robert Meyrat, Roger Vaillard – a quel tempo visto come una controfigura rediviva di Maldoror –, Pierre Minet, che dopo aver pubblicato una raccolta di poesie e due romanzi autobiografici avrebbe smesso di scrivere: «Ho ucciso il poeta in me per essere soltanto un uomo normale».
L’avventura del «Grand Jeu» era nata e si giocava sui banchi di scuola tra Reims e Parigi da quindicenni dotati di una precisa forza di volontà cui urgeva la necessità di qualcosa che li sospingesse verso altre dimensioni: «Eravamo angeli, Angeli-Fratelli, o forse un solo angelo in quattro corpi». Conducevano un preciso attacco contro «l’imbecillità dell’individualismo». Una «maniera» che riecheggiava il loro grande modello: la lettera del veggente inviata da Rimbaud all’amico Paul Demeny il 15 maggio del 1871, il primo vero manifesto dei movimenti d’avanguardia letteraria e della poesia moderna: scritta da un infervorato sedicenne Rimbaud che vuole il Poeta tale a un profeta votato a coltivare sistematicamente le sensazioni estreme, per poter giungere all’Ignoto. Auspica l’avvento di un «linguaggio universale» percepito e compreso contemporaneamente da tutti i sensi: «Il poeta deve farsi veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Egli giunge all’ignoto e, anche se sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste! È falso dire Io penso si dovrebbe dire Io sono pensato: IO è un altro». Moltiplicando l’unicità di Rimbaud, Daumal, «il profeta» del gruppo del «Grand Jeu», sentenziava: «Bisogna che lo Spirito s’impadronisca non di un uomo ma di un gruppo».
René Daumal era nato nel 1908 a Boulzicourt, cittadina a dieci chilometri da Charleville-Mezieres, luogo ove era venuto al mondo Rimbaud. La «vicinanza geografica» in tutta questa storia non dovrebbe avere importanza, tuttavia… (le celebrabili coincidenze)… sufficiente a illuminare e spostare il punto di vista, per far assumere ai due luoghi delle Ardenne una «comunanza esoterica» assimilabile, grazie a un altro «salto mortale» dell’intelletto, compiuto con l’ausilio della patafisica «scienza delle soluzioni immaginarie» inventata da Alfred Jarry, altro nume di quelli del «Gand Jeu».
La patafisica, fondata sul principio dell’equivalenza universale e della conversione dei contrari, era la «saggezza» del dottor Faustroll – personaggio palesatosi al mondo nel 1911 con l’opera di Jarry Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico –, il quale si prefiggeva di studiare le leggi che reggono le eccezioni e soprattutto individuare il meccanismo che governa un universo supplementare al nostro.
Daumal persegue anche l’ipotesi idealizzata da Jarry-Faustroll: per approdare al «piano superiore», a una «dimensione parallela» bisognava fare esperienza. La vita al di là della vita. Lo spingersi oltre il sensibile con un possibile strumento: in letteratura vivere lo stile come viaggio iniziatico. Rigenerarsi nella forma dell’espressione.
Convinto che nessun meccanismo verbale possa dar luogo a una verità, come nessun pensiero potrà mai esprimersi a parole, Daumal sosteneva che il linguaggio parlato creava l’illusione e soprattutto non poteva contenere alcuna conoscenza. Tentò di esprimere la sua visione esoterica non, ancora, con simboli ma con la scrittura, lo «strumento più prossimo»: «Se un forestiero mi chiede la strada, gliela indicherò usando parole. Ma egli non percorrerà quella strada sol per il fatto di avere già una ragione di recarsi in quel dato luogo». E per Daumal quel «dato luogo» era «un al di là» che esisteva: ma non si conosceva la strada per raggiungerlo.
Per lui la via fu «il viaggio» intrapreso con una specie di cloroformio, «il tetracloruro di carbonio, di cui mi servivo per uccidere i coleotteri che collezionavo… Il risultato superò e sconvolse la mia aspettativa spezzando i limiti del possibile e scagliandomi brutalmente in un altro mondo». Tentò di scorgere l’altra faccia dell’essere e percorrere l’altro mondo. Cercò di descrivere «il viaggio» con «le parole» nel testo Un ricordo determinante. Ma fu evidentemente costretto ad arrendersi a causa della limitatezza della parola «usuale»: «È impossibile raccontare il fatto. Vorrei esaurire tutte le mie risorse di linguaggio per riferirne almeno le circostanze esterne e interne». Nella sua impazienza di conoscere per arrivare a un allargamento della coscienza, aveva scelto una scorciatoia, la medesima intrapresa da tipi da «paradisi artificiali» come Baudelaire, Lautréamont e tutta la schiera dei poeti metafisici inglesi che avevano fatto uso della droga. Di tutti i suoi predecessori Daumal era stato forse il più temerario: aveva usato un prodotto estremamente tossico, che non appartiene all’armamentario dei prodotti definiti allucinogeni.
Il «viaggio» l’aveva compiuto nel 1924, quando aveva sedici anni. Reduce dall’esperienza compiuta, si rese appunto conto della sua irracontabilità. Cambiò registro espressivo: se ne trova traccia in buona parte dei suoi scritti fin al «culmine» de Il Monte Analogo – «centro originario del mondo… punto di comunicazione con l’aldilà» – la cui stesura, iniziata nel 1939, Daumal non riuscì a terminare, colpito da un’affezione polmonare che lo porterà alla morte nel 1944. Pagine che, «risvegliate», testimoniano di un percorso e che fanno «sentire» anche la «presenza» degli insegnamenti di Georges Ivanovic Gurdjieff, un personaggio circondato da leggende fantastiche: un uomo interamente consacrato alla ricerca di una conoscenza perduta e all’arduo compito di farla rivivere. Daumal era stato allievo di uno dei discepoli più devoti di Gurdjieff, Alexandre Gustav Salzmann, pittore, alpinista, amico di Rilke e Kandinsky, «ex-derviscio, ex-benedettino, ex-maestro di judo, guaritore, scenografo …un uomo incredibile». È il Padre Sogol nel Monte Analogo.
Una possibile mappa estetico-esistenziale Daumal aveva però tentato già di definirla (anche se per lui una mappa si esauriva percorrendola), pubblicando nel 1936 la raccolta di poesie Le contre-ciel; e nel 1938 La grande beuverie, racconto scritto durante un lungo viaggio negli Stati Uniti. Sono gli anni in cui studia sanscrito e la filosofia indù: altri possibili «percorribili» sentieri. Con la poesia di Le contre-ciel Daumal consegna un messaggio che irrompe fino al tempo nostro in cui il senso delle parole e del linguaggio sembrano essersi esauriti per eccesso e abusato sfinimento: la Parola unica e suprema, che non viene mai detta, si nasconde dietro alle parole dei poeti, che corroborano l’esistente: mappe celestiali, possibili itinerari per andare in altri mondi o goduti per ciò che sono.
Ritrovata la parola perduta e lo stile con cui pronunziarla, vorrebbe sperare ancora di dire che vale la pena continuare a scrivere per cercare il senso di una verità che sembra essersi inabissata. Forse, oggi, uno sconcertato Daumal griderebbe che non ne vale la pena giacché si è smarrito il senso dell’opera… Insomma abbiamo «dimenticato» la traccia del percorso, il sentiero sulla mappa della creatività quale ricerca. Privilegiando quel che viene comunemente chiamato intrattenimento.
Negli ultimi tre anni della sua vita Daumal aveva avuto un vivace scambio epistolare con una coppia di amici, Geneviève e Louis Lief. Sono lettere propedeutiche alla «conoscenza», pubblicate sotto il titolo Il lavoro su di sé. Nelle sue missive Daumal indica con determinazione una via capace di guidare (i suoi amici e oggi i suoi lettori) sulla strada che conduce all’ «acquisizione della individual sapienza». Lettere come invito al viaggio: in se stessi. Per ritrovare la traccia della parola perduta.