Le armi spagnole fanno il giro del mondo. Negli ultimi dieci anni, secondo il Centro Delàs per la pace e il disarmo, l’industria bellica madrileña ha aumentato il fatturato del 295%. Numeri che collocano il paese al settimo posto al mondo come esportatore di prodotti militari, ritagliandosi una fetta di mercato del 3,2%.

Un business in costante crescita che «non si è fermato nemmeno in un periodo difficile e incerto dovuto alla pandemia da Covid-19», denuncia al manifesto Albert Botran Pahissa deputato nazionale della Cup (Candidatura di unità popolare).

L’ultimo bilancio bellico recita entrate per oltre quattro miliardi di euro, in crescita rispetto l’anno precedente (2018). I numeri saranno ancora più alti in futuro: negli ultimi dieci anni è stato esportato solo il 41% dei contratti autorizzati dalla Giunta interministeriale di Materiale di Difesa (Jimmdu), perché gli aerei militari e le navi da guerra sono i prodotti più richiesti (seguiti da munizioni e bombe) ma necessitano di tempi lunghi prima di essere consegnati.

NELLA VENDITA del proprio arsenale la Spagna persegue due linee politiche principali: quella economica (vendere al massimo prezzo possibile) e quella geopolitica (vendere agli alleati). Tra i maggiori acquirenti troviamo Germania, Regno unito e Francia. In questo senso «la vendita delle armi agisce come uno strumento di politica estera – dichiara Botran – andando a bilanciare altri settori in cui la Spagna è debole».

La crescita del settore bellico è stata costante, indipendentemente dal partito di governo. Il rapporto sottolinea che sia il Psoe che il Pp hanno attuato politiche simili in materia di vendita militare. Gli esecutivi che si sono susseguiti dal 2010 hanno diminuito i costi di produzione «per essere più competitivi», si legge nel documento. Il 2008 è considerato l’anno di svolta: l’allora ministro della Difesa del Pp, Pedro Morenés, ha incentivato la vendita verso l’estero per sopperire alle misure di austerità nei confronti del suo dicastero. Iniziando così un trend positivo per l’intera industria.

Circa un terzo (27%) delle armi esportate nel 2019 sono andate a finire ai paesi asiatici, mercato in cui la Spagna è in crescita. Tra questi primeggia la Corea del Sud seguita da Singapore, Filippine e Thailandia. Il riarmo asiatico ha coinvolto tutti i paesi anche se in misure diverse. Ciò è dovuto a molteplici fattori: dalle tensioni nel Mare cinese meridionale all’instabilità del conflitto tra India e Pakistan passando per la paura di un’egemonia cinese nell’area.

I PAESI CON CUI SI FANNO più affari in Medio Oriente sono Arabia saudita, Emirati arabi ed Egitto, Stati che violano sistematicamente i diritti umani e impegnati in conflitti bellici che contano migliaia di vittime civili, come quello yemenita. All’Arabia saudita sono stati venduti due aerei di trasporto militare, munizioni e altro materiale per un valore totale di circa due miliardi di euro negli ultimi dieci anni. L’Egitto di al-Sisi ha avuto un incremento di acquisti dal 2013 al 2016 diretto verso le armi leggere.

«Come Cup denunciamo che ci siano conflitti bellici nutriti da armi spagnole, questo contravviene alla legislazione nazionale ed europea», ci spiega Botran, che tiene a precisare che la questione coinvolge anche altri paesi dell’Ue. Tuttavia la materia delle esportazioni militari è disciplinata anche dalla legge dei Segreti Officiali, rendendo più complicato il meccanismo di controllo politico e giuridico sui contratti adottati.

La maggior parte della produzione militare si concentra nei Paesi baschi, in Andalusia e nella provincia di Madrid. Tuttavia anche in queste aziende «si verificano forme di precarietà generalizzata che abbiamo in tanti altri settori – afferma il parlamentare catalano – I sindacati di solito sono acritici con quello che viene prodotto in queste fabbriche, perché minacciati dalla disoccupazione nel caso in cui si dovesse bloccare la produzione».

MA «CI SONO IMPRESE in cui soltanto il 20-30% della produzione è a base militare e in questi casi si può pensare a una riconversione verso l’elaborazione di altri materiali – continua Botran – Dato che con la pandemia abbiamo constatato che è necessario produrre materiale sanitario, non armi».