Che strano destino, quello di Dalida. Una delle poche dive internazionali della canzone negli anni della televisione in bianco e nero è ricordata in Italia, quando qualcuno la ricorda, per due cose: il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo e la canzone Dan Dan Dan. Il primo episodio è del 26 gennaio 1967 ed è stranoto alle cronache; il secondo è dell’anno dopo ed è la più brutta canzone che lei abbia mai cantato e che, però, le ha fatto vincere Partitissima, brutto nome per il varietà che in quell’anno aveva sostituito Canzonissima. Almeno, le foto e i video d’epoca ci rimandano una sua immagine bellissima, elegante, con un glamour alla francese che le cantanti italiane non potevano avere e con l’ambiguità che le regala quel viso irregolare, originale e unico di una calabrese nata a Choubrah, alle porte del Cairo in Egitto, il 17 gennaio 1933. Un viso sottolineato da un più che stravagante strabismo di Venere e un corpo statuario, si direbbe magro-giunonico, entrambi fatti apposta per essere clonati dalle drag queen dell’epoca che già l’adoravano e la imitavano, esibendosi nella venerazione di chi li ascoltava e li applaudiva durante gli spettacoli dei piccoli cabaret installati su palchi di fortuna nei locali gay di Parigi. Perché la contraddizione tra il vissuto italiano e la realtà è proprio qui: Dalida era una diva internazionale ancora prima di incappare in quella brutta vicenda al festival di Sanremo, dove fu lei stessa a imporre la canzone di Tenco, Ciao amore, ciao.

In quell’Italietta provinciale, la diva ex Miss Egitto di origini italiane e dal passato esotico che veniva da Parigi era la figura adatta a costruire il gossip pubblicitario del Festival, la relazione d’amore con Tenco. Il caso e la sfortuna ci misero del proprio: è lei che trova Tenco morto nella camera d’albergo e diventa lo strumento perfetto per imbastire un romanzetto d’amore da cronaca rosa con finale tragico. Oggi quella storia appare non credibile per svariati motivi, non ultimo l’incompatibilità delle scelte sessuali dei protagonisti. Il perbenismo ipocrita dell’epoca non ha permesso di parlarne. Oggi a quella storia d’amore non ci crederebbe nessuno, eppure tutti credono ancora, grazie ai ritagli d’archivio, all’amore interrotto tragicamente da uno sparo. Alla fine a rimetterci fu solo lei.

Invece, la personalità di Dalida è completamente diversa ed è tutta raccolta in una sua canzone dal testo poco ortodosso per l’epoca, Il venait d’avoir 18 ans, scritta nel 1973 da Pascal Sevran sulla storia del romanzo Le Blé en herbe di Colette, e inserita nell’album Julien, infine incisa in inglese, tedesco, italiano, giapponese e vincitrice del Premio dell’Académie du disque francais nel 1975. In quel testo c’è tutta la sua femminilità che lei voleva, e viveva, in modo alternativo alla sua epoca. Nella reale non-chalance con cui cantava quella canzone alla televisione francese, davanti a milioni di spettatori, dove raccontava un tutt’altro che casuale atto sessuale (anzi preparatissimo con lo studio del trucco e della pettinatura: J’ai mis de l’or dans mes cheveaux et un peu plus de noir sur mes yeux) di una donna con un ragazzo che aveva metà dei suoi anni, c’è l’intera essenza del suo essere donna-diva-libera. Una diva dal glamour assoluto che con le canzonette era in grado di lanciare messaggi per l’indipendenza dalle regole-leggi piccolo borghesi che, ancora in quegli anni, rendevano la vita difficile a tutte le donne. E quasi impossibile agli omosessuali, il suo pubblico eletto, internazionale e senza confini.

L’Italia degli Anni 60 e 70 non era abituata a quel tipo di glamour, anche se Mina a Studio Uno si presentava in abito da sera e le gemelle Kessler si vestivano con le tutine di strass, eppure di lei gli italiani amavano l’orrenda versione in italiano di Les enfants du Pirée (quel Ta pedia tou Pirea scritta da Manos Hadijdakis per il film con Melina Mercouri del 1960) che suonava stupida come il suo ritornello «uno a te, uno a me», al contrario di quando la cantava in francese e ne faceva intendere il sottotesto.

Questo le provocava evidente sofferenza, visto che decise di non tornare più in Italia. Mentre da noi, quindi, di lei rimane un ricordo un po’ folk, in Francia continuava a essere la diva iconica sia per quelli della sua generazione sia per i giovanissimi, tanto da conquistare il titolo di Disco Queen francese, una posizione dalla quale perfino icone più mediatiche, tipo Grace Jones, non sono riuscite a detroneggiarla.

Tanto che faceva effetto, ancora qualche anno fa e quasi vent’anni dopo la sua morte, entrare nel megatempio della musica in cd sugli Champs Elisées e trovare intere pareti tappezzate con i suoi successi, scaffali ispezionati e saccheggiati da giovani nati mentre lei era già fuori dallo star system, con le sue canzoni originali, rimixate, riadattate, incise dal vivo o in studio. Lo stesso effetto fuori scala che ha provocato, anni prima, la folla immensa e piangente, incontrata per caso, davanti alla chiesa de la Madelaine a Parigi il 7 maggio 1987, il giorno dei suoi funerali. Era l’addio disperato a una star che a un italiano che aveva ascoltato per caso, e non ne era rimasto per niente colpito, il suo «io sparo a te tu spari a me» (la cover di Bang Bang, My Baby Shot me Down di Sonny Bono per Cher) sembrava esagerato.

E invece, quella canzone era per i francesi un inno all’amore, cantato da una voce straniata dall’amore mancato. Tanto che, sempre nella versione italiana, nel 2010 quella stessa canzone è finita al Festival di Cannes come colonna sonora del film Les Amours Imaginaires dell’allora ventunenne Xavier Dolan. Dalida era ed è ancora un mito, quindi, al pari forse solo di Edith Piaf. Perché ai francesi è sicuramente più comprensibile quel glamour che resiste al passare del tempo, e che se imitato diventa camp, di una diva volontariamente andata via dalla vita la notte tra il 2 e il 3 maggio del 1987 scrivendo «La vie m’est insupportable. Pardonnez-moi».