È evidente che il solo atteggiamento sensato che la minoranza del Pd possa adottare nei confronti di Renzi è quello suggerito all’Acquario da Massimo D’Alema: una spregiudicata guerra di movimento, con imboscate e colpi ben assestati. Di quelli che lasciano sulla leadership nemica evidenti segni di logoramento e producono non rimediabili ferite politiche.

Che questa sapiente azione di provocazione e sabotaggio, di chi ha una capacità di fuoco residuale e però mira alla deposizione di Renzi, sia il solo metodo efficace per contrastarlo, lo conferma anche la immediata discesa in campo del Corriere a protezione dello statista fiorentino, sfregiato da una inaudita manifestazione di lesa maestà. Le firme che hanno accumulato fortune denunciando la “casta”, ora indossano l’elmetto per fare i guardiani del fortino assediato dal dissenso non tollerato di un politico “extraparlamentare” abbandonato da antichi luogotenenti in carriera e senza più molte truppe per la manovra.

Contro un avversario che conta su cotante schiere armate a difesa della sua integrità, Bersani aspetta la rivincita nei vecchi e falsati tornei delle primarie. Ma si inganna. È davvero realistico disarcionare il condottiero toscano alle primarie aperte e andare al voto senza ricandidare il premier in carica? Suvvia. O lo si fa cadere prima, con una risolutiva resa dei conti o è assurdo il percorso del “cretinismo congressuale” immaginato per incassare la rivincita nei gazebo. E poi, se tutto è rinviato al torneo delle primarie, la minoranza del Pd, che contava su almeno l’80 per cento dei parlamentari, e si è piegata su ogni scelta senza nulla obiettare, per cosa chiederà il sostegno? E chi sarà disposto a dare più forza per dei campioni dell’impotenza?

Pensare che il Pd sia ancora un partito contendibile, che mantenga i confini di una organizzazione complessa che esige rispetto delle procedure e lealtà a dei riti antichi, è una illusione. Renzi non è una variante minore del veltronismo, con cui si può contrattare uno spazio in attesa di una possibile rivincita. La sua scalata ostile ha ucciso il partito, ne ha mostrato l’inconsistenza, ne ha svelato la mancanza di autonomia e carenza di istituzionalizzazione. Quello che i sondaggi danno in testa alle preferenze è in realtà un non partito, un mero cartello plebiscitario privo di radici, identità, condivisione. Non è pensabile, e comunque non è un segnale positivo per la salute del sistema politico, che il Pd sia il luogo totalizzante in cui possano convivere le semplificazioni neoassolutistiche (lotta alla potenza sociale del lavoro, modello autoritario di democrazia) e le istanze di un recupero delle radici sociali della sinistra (contrasto alle diseguaglianze, ritorno ad una funzione dello Stato nell’economia).

Prima la sinistra interna si libera degli sterili imperativi solidali, che la inducono all’obbedienza verso un leader che strapazza la democrazia costituzionale, e meglio sarà. Se concede a Renzi anche la legge elettorale che prevede il ballottaggio (la costruzione meccanica di una governabilità rigida che non si smonta di sicuro con la battaglia minore sul voto di preferenza), il suo suicidio sarà completo e senza più rimedio. Solo l’incognita di un M5S che non retrocede dal 20%, e quindi acciuffa il ballottaggio, complicherebbe i piani di potenza di Renzi costringendolo a convivere con l’incubo di Parma o di Livorno.
Il timore che un agguato parlamentare conduca al voto anticipato non può paralizzare la prova di resistenza della minoranza. E comunque, in queste camere, la semplice durata è per molti peones l’imperativo categorico. Per evitare le urne, raccatterebbe la fiducia anche un governo che proponesse, quale suo programma immediato, una repubblica dei soviet degli operai e dei contadini.
La lotta politica di fazione, contro un nemico dalla soverchiante forza, non si fa senza un pizzico di cattiveria e soprattutto quel cinismo che rientra nell’abito mentale dei galli postdemocristiani. I postcomunisti sono rimasti schiacciati nella contesa anche per la loro scarsa dimestichezza con la logica spietata della lotta di corrente. Hanno applicato a un soggetto nuovo e “scalabile” la logica della leale competizione delle idee propria della antica creatura con apparati e identità.

Spiegava Tocqueville che «un tempo non si adatta mai a un altro, e quei vecchi scenari che si vogliono far entrare a forza entro i nuovi quadri, producono sempre cattivi effetti». Questo non è il tempo del partito nuovo, con i suoi antichi vincoli di fedeltà e con gli sforzi di correttezza verso la maggioranza, ma è il momento di una guerra di movimento che, nella irrimediabile sproporzione delle forze, va condotta senza remore e con gesti simbolici graffianti.

La sinistra deve prendere coscienza della sua strutturale inferiorità strategica e per incidere non può prescindere da quella “crudeltà bene usata” che Machiavelli poneva tra le risorse della politica che costruisce nuove cose. La prospettiva ideale, in vista della quale essere crudeli, esiste ancora o la minoranza, priva di ogni coalizione sociale di riferimento, è anch’essa solo la raccolta dei cascami di un ceto politico che difende modeste prospettive di carriera parlamentare?