La cura, la fatica, la rabbia, la ribellione, il canto. Sembra paradossale mettere insieme la finanza che cerca profitto su tutto (la vita, la vecchiaia, la malattia, la morte) e la poesia di un coro femminile. I due concetti stridono perché uno vampirizza il corpo, mentre l’altro, il canto, il corpo lo libera. Eppure sta proprio in questa apparente divaricazione la forza del documentario Armotonta menoa-Hoivatyön lauluya (Rutheless Times-Songs of Care) diretto da Susanna Helke e musicato, aspetto importantissimo, da Anna-Mari Kähärä. Girato in Finlandia e presentato in prima mondiale al Festival di Locarno nella sezione Semaine de la Critique, «Armotonta» si apre con una carrellata di volti femminili che cantano. Sono infermiere, indossano la divisa di lavoro, hanno volti giovani e meno giovani, tutti segnati dalla fatica. Ma dalle loro voci arriva un suono ancestrale che fa pensare alle viscere della terra, terra madre. Cantano, le infermiere, parole e melodie che suonano come un J’accuse inesorabile. «Il gap della sostenibilità siamo noi», «La città e la compagnia di cura mi hanno messo sulla lista nera», «Siamo state istruite a non fare commenti sulla nostra azienda», «Siamo state costrette a lasciare i pazienti sulla sedia a rotelle per giorni interi», «Ho deciso di lasciare il lavoro per evitare di prendere decisioni non etiche ogni giorno».

INVECCHIARE costa. Invecchiare male costa di più perché servono cure e attenzione più assidui. Uno pensa che in Finlandia siano dei campioni del welfare, e invece questo film, durissimo e accogliente e per questo potente, mostra come anche lì dalla fine degli anni Novanta, per far rientrare il debito pubblico, si è cominciato a sottrarre risorse alla cura dei più deboli. Nella città di Kaavi, nord est della Finalndia, nel 2018 il consiglio comunale ha deciso di risparmiare sul personale introducendo il controllo a distanza e dei robot. Molte infermiere in carne e ossa sono state sostituite da videochiamate. A domande come «Hai mangiato? Mi senti? Ha dormito bene stanotte?» spesso vedi ottantenni attoniti che a malapena capiscono chi sta parlando dall’altra parte dello schermo. Sempre per risparmiare hanno diminuito il personale al quale viene chiesto di essere veloce ed efficiente, e se una notte una persona da sola deve assistere un anziano che si è tolto i vestiti, uno che non riesce a dormire, uno che si lamenta, un altro che si sente male, se qualcosa non va le lamentele ricadranno sull’infermiera di turno perché sarà lei ritenuta incapace, non feroce il sistema.

Uno pensa che in Finlandia siano dei campioni del welfare, e invece questo film, durissimo e accogliente e per questo potente, mostra come anche lì dalla fine degli anni Novanta, si è cominciato a sottrarre risorse alla cura dei più deboli.

QUANDO HA DECISO di raccontare tutto ciò, la regista Susanna Helke si è trovata di fronte a un problema. «Ai sindacati – ci ha detto – arrivavano molte lettere di denuncia, ma quasi nessuno voleva rendere pubblico il proprio nome e volto per paura di ritorsioni. È qui che ho avuto l’idea della musica e del coro femminile. I testi delle canzoni del film sono un montaggio di frasi scritte in quelle lettere, e sono cantate da chi non le ha scritte. Questo ci ha permesso anche di evitare eventuali cause».
L’effetto è straniante e dirompente, come in una tragedia greca dove al coro è affidata la parte dell’inconscio collettivo. Ed è un mare sonoro che monta, e colpisce, e non perdona, che prende sonorità dalla tradizione finlandese e dal blues, come ha detto la compositrice Anna-Mari Kähärä. Quei canti e quei volti creano un linguaggio. Sono la voce della verità che sale dalle viscere di chi ci ha messo al mondo, le donne, e che in questo caso ci accompagnano verso la fine del mondo, una fine reale, ma anche metaforica.