Negli anni 1910-1911, quando in Italia il lungo dibattito sulla colonizzazione della Libia stava ormai sfociando nell’apertura delle ostilità con l’Impero Ottomano, un pioniere dell’archeologia nostrana, il roveretano Federico Halbherr, con una lunga campagna esplorativa, gettò le basi per quella che negli anni diverrà una delle missioni archeologiche italiane all’estero più prestigiose.

Gli scavi di Cirene – prima colonia greca sulle coste africane che, per tradizione, si vuole fondata nel 631 a.C. e che, per la sua vastità e monumentalità, verrà ribattezzata «Atene d’Africa» – hanno visto avvicendarsi i più grandi nomi dell’archeologia italiana. In tempi più recenti avevano preso le redini dell’impresa gli indimenticati archeologi Sandro Stucchi e Lidiano Bacchielli, seguiti poi da Mario Luni, venuto a mancare nel 2014. Alla missione principale se ne sono poi affiancate altre, fra le quali di notevole importanza scientifica è quella dell’Università «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara (inaugurata da Emanuela Fabbricotti e portata avanti con successo da Oliva Menozzi), dedicata all’esplorazione delle vaste necropoli e della regione circostante l’antica città: la chora, con i suoi villaggi agricoli e i suoi luoghi di culto.

Con la rivoluzione del 2011, la caduta di Gheddafi e lo scoppio della seconda guerra civile durata fino al 2020, le condizioni minime di sicurezza per portare avanti le operazioni di scavo sono venute meno e così, per un decennio, sia le missioni italiane che quelle straniere hanno dovuto sospendere la loro attività. L’interesse è stato però tenuto vivo dalla continuazione delle ricerche, dai numerosi convegni e da un attento monitoraggio dei siti, grazie anche alla fattiva collaborazione dei colleghi libici, soprattutto rispetto a un’espansione edilizia incontrollata e a una certa incuria. Aspetti sicuramente problematici, ma non certo paragonabili ai tragici fatti occorsi in Siria tra il 2015 e il 2017, con la distruzione dell’antica città carovaniera di Palmira.

Con la de-escalation militare a seguito dei colloqui di Ginevra dell’ottobre 2020, dopo qualche breve puntata esplorativa dei membri della Missione Italiana negli anni scorsi, quest’inverno la Missione dell’Università di Urbino, diretta da Oscar Mei, allievo e successore di Mario Luni, e quella dell’Università di Chieti-Pescara, diretta da Oliva Menozzi, entrambi docenti di archeologia classica nelle rispettive università, hanno deciso di unire le forze e organizzare – non senza difficoltà burocratiche – una breve campagna volta soprattutto a «tastare il terreno», per capire se il paese e le sue istituzioni fossero pronte ad accogliere nuovamente gli archeologi italiani.

Essendo al momento ancora interrotto il collegamento aereo diretto fra Italia e Libia, il gruppo di studiosi è partito la mattina del 15 febbraio da Fiumicino con destinazione Cairo. Oltre ai due direttori e a chi scrive – cooptato in qualità di epigrafista – facevano parte del team il restauratore Daniele Nardini, due archeologi dell’Università abruzzese, Maria Giorgia Di Antonio e Luca Cherstich, e due paleoantropologi: Alfredo Coppa dell’Università «La Sapienza» e la ricercatrice Michaela Lucci, impegnati in un importante progetto di mappatura del genoma umano a partire dalle prime attestazioni di Homo sapiens.
I problemi principali si sono registrati al momento di effettuare il transito aereo dall’Egitto alla Libia, sebbene tali difficoltà non pare abbiano trovato ragion d’essere nella situazione politica che aveva visto pochi giorni prima a Tripoli l’attentato al primo ministro Dbeibah e la sua – non riconosciuta – sostituzione con Fathi Bashagha, uomo gradito al maresciallo cirenaico Haftar a sua volta appoggiato dal governo al-Sisi.

Lasciare la grigia cappa di smog del Cairo e atterrare in una tersa e soleggiata Bengasi ha avuto un effetto rinfrancante, grazie anche al caloroso benvenuto dei colleghi del Doa (Department of Antiquities of Libya): Abdulrehim Saleh Sheriff e Faraj Abdel Hati. La situazione generale del paese è apparsa tranquilla; la strada fino a Cirene (moderna Shahat) è lunga e si inerpica sui due gradoni del doppio altipiano che forma la Cirenaica: la «montagna verde» in arabo, coi suoi ampi pascoli erbosi. La casa affittata per la missione, al centro del vecchio quartiere italiano, era un po’ mal messa, i servizi igienici a mala pena funzionanti, la luce non sempre presente e il riscaldamento, in un periodo in cui le temperature si fanno anche piuttosto rigide, assicurato da mezzi di fortuna. Ma ci si adatta, fa parte del lavoro. Casa Parisi, la storica sede della missione italiana, è ormai inutilizzabile: in rovina e depredata di tutto durante la guerra.

Il breve tempo a disposizione ha consentito solo rapidi saggi di scavo nell’area di fronte al ginnasio ellenistico (poi foro romano), il restauro di un muretto presso gli splendidi mosaici pavimentali della casa di Giasone Magno del II sec. d.C., l’inventario di alcune epigrafi e busti statuari custoditi nei magazzini e un’esplorazione fra i rovi del wady bel Gadir, uno dei profondi avvallamenti che delimitano il sito, erosi da antichi corsi d’acqua, dove fanno la loro comparsa molte nicchie scavate nella roccia: resti di antichi santuari a destinazione cultuale o funeraria, talvolta impreziosite da rilievi o raffigurazioni scultoree di divinità. Anche l’indagine di una tomba della necropoli sud, resa accessibile da alcuni lavori edilizi, purtroppo frequenti nella zona, ha rivelato varie camere funerarie e nuove iscrizioni. Rassicura, tuttavia, vedere i siti in condizioni piuttosto buone, aperti ai visitatori locali tra i quali si incontrano anche famiglie con bambini.

Il 23 febbraio, di ritorno a Bengasi, i direttori delle missioni tengono, presso il vivace centro culturale Barah, una conferenza organizzata dal nuovo console italiano Carlo Batori, appena insediatosi, e in collaborazione con l’Università di Bengasi. La città mostra ancora evidenti i segni dei bombardamenti subiti, ma tra la gente si percepisce la voglia di riprendere una vita normale e intrattenere relazioni sociali e culturali.

Dopo la conferenza il Console ha invitato gli archeologi italiani e libici a visitare la nuova sede diplomatica, protetta dalle nostre forze dell’ordine. Giovane, entusiasta, molto informato e capace, il Console Batori ha espresso il suo interesse e il suo sostegno alla prosecuzione dei lavori archeologici in Cirenaica, oltre alla volontà di farsi parte attiva nel restauro del centro storico di Bengasi.
La speranza è quella di poter tornare presto a organizzare una nuova campagna di più lunga durata, con minori problemi burocratici e logistici e in una situazione internazionale più distesa.