Il Movimento 5 Stelle si avvicina alle settimane decisive di campagna elettorale per il referendum sul taglio dei parlamentari e per le regionali nel caos. Non c’è uno scontro interno vero e proprio, almeno non solo uno, piuttosto diverse tensioni si incrociano e attraversano temi specifici, il rapporto con l’esecutivo e la riorganizzazione interna. Tre giorni fa era successo alla camera, con l’emendamento sui vertici dei servizi che aveva messo in difficoltà Palazzo Chigi e che Luigi Di Maio ha dovuto disconoscere. Ieri è accaduto a palazzo Madama, dove il passaggio del dl Semplificazioni ha trovato più di una resistenza interna e dissenso sulle norme che sbloccano la costruzione degli stati o sul lavoro privato dei docenti universitari. Fino a costringere il capogruppo Gianluca Perilli a convocare i senatori grillini e a garantire la tenuta del M5S sul voto di fiducia.

IL MINISTRO DEI RAPPORTI col parlamento è il grillino Federico D’Incà. Che fa trapelare il suo stupore. «Come mai queste critiche non sono emerse nel corso della discussione in commissione ma soltanto nel dibattito interno ai gruppi?», dicono dal suo staff. La domanda sposta immediatamente l’attenzione sugli equilibri interni. D’Incà sarebbe accusato dai suoi detrattori di fare il gioco del governo e non ascoltare le richiese dei suoi colleghi. Il ministro da tempi non sospetti è considerato moderato, di certo prima di altri si era detto favorevole a un rapporto col Pd. È uno di quelli che un anno fa condusse la battaglia dentro ai gruppi per far sedere Di Maio accanto a Nicola Zingaretti. Di Maio, come è noto e come racconta lui stesso appena ne ha l’occasione, non era affatto convinto. Di fronte alle insistenze dei parlamentari grillini fece buon viso a cattivo gioco ma poi, questa è la narrazione che circola tra molti eletti del M5S in cerca di rivincita, piazzò soprattutto i suoi nella lista di ministri e sottosegretari. Ma qualcosa dovette concedere, e D’Incà costituì un’eccezione. Il fatto che adesso sia sotto tiro, e che venga tacciato di essere più fedele a Conte che al M5S, alimenta i sospetti sulle manovre dell’ex capo politico.

C’È POI L’ORMAI CONSUETO, logorante travaglio sull’organizzazione interna. Ieri hanno cominciato a circolare voci circa la possibilità che prima ancora dei fantomatici Stati generali del M5S il nuovo leader verrebbe scelto con una votazione lampo sulla contestatissima piattaforma Rousseau. Tanto è bastato per scaldare gli animi fino a costringere i vertici a smentire. È vero però che Crimi da tempo cerca una mediazione: non esclude una forma ibrida di selezione dei vertici, con manovre di avvicinamento e processo di selezione tramite Rousseau che servano ad incanalare il meccanismo che dovrebbe condurre all’evento assembleare finale. Tutto tranne che il «congresso», insomma, che ormai chiedono in tanti e che in qualsiasi forma dovesse avvenire dovrà tenere conto dei risultati usciti dalle urne del 21 settembre. Questo è il timore di molti eletti e non è un caso che ne risenta ancora una volta l’assemblea dei gruppi, in quanto unico organo collegiale costruito su un criterio di rappresentanza territoriale del Movimento 5 Stelle.

SEMPRE IERI, il presidente della camera Roberto Fico era alla festa nazionale del Pd di Modena per assicurare: «L’alleanza tra Pd e 5 Stelle supererà le regionali senza alcun dubbio». Ma gli scenari disegnano esiti che paiono divergenti. Da un lato, la maggioranza rischia di uscire indebolita dalla possibile sconfitta alle regionali. Dall’altro, tuttavia, il M5S trarrebbe giovamento da una vittoria del sì al referendum, che nell’immediato avrebbe l’effetto di allontanare le elezioni (chi vorrebbe tornare al voto con meno seggi in palio?) e nel futuro consentirebbe ai vertici di immaginare un gruppo parlamentare più ristretto e dunque più controllabile di quello attuale. Le rivendicazioni di visibilità di molti parlamentari 5S troverebbero speranza nella promessa di un rimpasto. Ecco dunque che i sommovimenti interni di questi giorni, e le tensioni che precipitano sia alla camera che al senato sul governo Conte, assumerebbero un senso.