Quando Michael Leahy arrangiò il grammofono su una stuoia, il «primo contatto» era già avvenuto, ma gli indigeni continuavano a fissare lui e gli altri membri della spedizione con un misto di stupore tragico e sospettosa attenzione. Un’allegra musichetta in voga in quegli anni, Looking on the Bright Side of Life, saturò l’aria già densa di umidità e catturò gli abitanti che si erano radunati attorno a quell’ispettore minerario improvvisatosi antropologo.

Lo stupore di Leahy fu però grande quando non li vide danzare come come si sarebbe aspettato dando retta alla sua immaginazione. Li fotografò, attese ancora, la musica continuava, ma niente: i «selvaggi» se ne stavano immobili. Solo dopo molte note cominciarono le danze, ma con cadenze quasi forzate e accompagnati da quegli sguardi straniti che proprio le fotografie e i filmati girati da Leahy ci hanno consegnato. È celebre, su tutte, l’immagine scattata da Leahy di un guineano che piange, in preda al panico e al terrore, durante il «first contact» con l’uomo bianco.

Trent’anni dopo, nel corso di una intervista, uno degli indigeni presenti alla scena del grammofono rivelò: «sentivamo gridare, credevamo fosse una scatola piena di spiriti, credevamo che i nostri antenati fossero là dentro. Poi quell’uomo ci disse ancora di ballare e allora noi ballammo, credendo che i nostri antenati ballassero con noi». Guardare e osservare fu una pratica costante di Mick Leahy, che dalle sue annotazioni trasse un libro persino oggi tutt’altro che privo di interesse, Explorations into Highland New Guinea, 1930-1935.

Anche gli «indigeni», dal canto loro, guardavano e osservavano quelle strane creature bianche, tentando di collocarle in categorie via via più familiari alla loro visione del mondo. Amici? Nemici? Estranei? Alcuni gruppi giunsero a considerarli «creature del cielo», come osserva Jared Diamond, nel suo ultimo lavoro, Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali? (traduzione di Anna Rusconi, Einaudi, pp. 504, euro 29,00), che proprio da questa vicenda prende spunto. L’osservazione non è mai univoca, e questa storia lo dimostra. I guineani, ricorda Diamond, scrutavano attentamente gli europei, classificandone ogni comportamento e due cose li convinsero che non di creature ultraterrene, ma di uomini a tutti gli effetti si trattava: la sessualità e i resti. Nei loro accampamenti, i bianchi lasciavano escrementi come tutti. Di ritorno al villaggio, poi, le ragazze che venivano loro offerte come partner rivelavano che, dismesso il completo da esploratore, i bianchi avevano organi sessuali in tutto e per tutto simili a quelli degli abitanti dell’isola.

Michael Leahy, di professione minatore, arrivò per la prima volta sugli altipiani della Nuova Guinea nel novembre del 1930. Da lì, risalendo il fiume Purari, accompagnato dal fratello Danny e da Michael Dwyer, nel corso degli anni prese a esplorare le zone orientali e centrali dell’isola. Zone che, fino a quel momento, si ritenevano disabitate e prive di reale possibilità di sfruttamento, poiché interamente ricoperte dalla foresta pluviale. Zone talmente impervie da costringere nel 1889 alla resa anche l’agguerrita Deutsche Neuguinea-Kompagnie, che inizialmente aveva magnificato a Bismarck il potenziale economico, geostrategico e commerciale di quelle terre. Ma venne il tempo in cui, in Australia – che governava l’isola dal 1920, su mandato della Società delle Nazioni – si pensò di mettere a frutto quella terra abbandonata dagli uomini e, nonostante lo zelo iniziale dei pastori luterani, dimenticata da Dio.

Cominciarono dunque le prime esplorazioni. Chi cercava oro e risorse naturali, però, non trovò altro che uomini. Un milione di esseri umani di cui nessuno, fino agli anni trenta, aveva mai sospettato l’esistenza.

La prima spedizione-Leahy ribaltò in un attimo l’opinione corrente, altre ne seguirono via terra e via fiume. Poi fu la volta delle perlustrazioni aeree, che da un lato offrivano ampia possibilità di ricognizione, dall’altra preallertavano le popolazioni locali. L’avvento delle perlustrazioni aree mise fine a ogni possibilità di «primo contatto». In Papua Nuova Guinea esistono ancora popolazioni che non hanno mai «visto» un bianco, ma è pressoché improbabile che non ne abbiano avuto notizia, magari tramite le popolazioni dei territori limitrofi, o quanto meno osservando gli aerei che, dagli anni Quaranta, regolarmente attraversano i cieli.

Il 23 giugno del 1938, una spedizione congiunta del Museo di storia naturale di New York e del governo coloniale olandese, finanziata dal naturalista, filantropo e magnate del petrolio Richard Archbold, sorvolando la Baliem Valley si trovò improvvisamente dinanzi a una valle pianeggiante fino a allora sconosciuta, venendo in contatto col gruppo più densamente popolato degli altipiani occidentali, i centomila membri della popolazione Dani. Forse è questa l’ultima esperienza di «primo contatto» che il nostro mondo si è potuto concedere. Fino agli anni Trenta, la parte orientale dell’isola di Nuova Guinea era praticamente sconosciuta al mondo: i suoi abitanti, pur diversi tra loro quanto agli idiomi parlati – a tutt’oggi la Nuova Guinea è una delle zone con più alta diversità linguistica della terra – e relativamente agli usi praticati, erano uniti dal fatto di non possedere denaro, non conoscere manufatti in metallo, non avere un’organizzazione statuale, né conoscere la scrittura (oggi il tasso di analfabetismo si aggira sul 34%).

Mediamente, avevano una vita della durata di trent’anni e non si erano mai allontanati più di 60 km dal proprio villaggio di appartenenza. Oggi, e non solo nella capitale Port Moresby, tutto è cambiato, e – come sottolinea Diamond – è legittimo supporre che anche gli ultimi gruppi superstiti degli altipiani siano comunque a conoscenza che qualcosa esiste, oltre i propri confini. In ottant’anni – nota Diamond in questo suo libro molto interessante, ma anche molto impressionistico, schierato e orientato da una prospettiva molto personale – le popolazioni delle regioni interne papuane hanno vissuto cambiamenti per cui, nel resto del mondo, sono occorsi migliaia di anni. Il che sotto certi aspetti rende la Nuova Guinea una interessantissima «finestra sul mondo fino a ieri» e una sorta di laboratorio tutt’ora attivo dove osservare il funzionamento di sistemi di conciliazione e regolamentazione dei conflitti molto diversi rispetto a quelli a noi più familiari.

Attraverso l’osservazione dei mutamenti intervenuti nelle zone montuose da quel 1930 a oggi – secondo l’opinione dell’autore, già molto contestata, anche se nel libro le argomentazioni a favore non mancano – è possibile accedere a una sorta di laboratorio esteso, a cielo aperto, dove osservare in vivo una transizione epocale e apprendere qualcosa di importante sulla matrice, il funzionamento e l’evoluzione di fondamentali fenomeni, tra i quali la territorializzazione, le istituzioni, la religione (cui sono dedicate le pagine pià deboli), la guerra, i sistemi giuridici, l’educazione, il gioco e i rapporti tra generazioni.

È stata la consapevolezza di quanto lenta sia stata l’evoluzione dei nostri stili di vita, della nostra tecnologia e delle nostre istituzioni a concentarsi sulla Nuova Guinea come terreno di osservazione, non un mero «esotismo»: la necessità era quella di individuare una regione che funzionasse come lente particolarissima attraverso la quale osservare l’evoluzione e l’involuzione di certe pratiche presenti anche nelle comunità di individui a cui noi tutti apparterremmo, i «Weird», apprendendo qualcosa da quelle società «altre». Weird è un acronimo coniato dai sociologi Joseph Heinrich, Steven Heine e Ara Norenzyayan, che sta a indicare individui provenienti da società occidentali (western), istruite (educated), industrializzate (industrialized), ricche (rich) e democratiche (democratic). Oggi, però, tutto sembra troppo addomesticato e anche l’osservazione ha ben poche ragioni d’essere se si riduce a un campionario di funzioni utili per riconvertire in una versione «ecologicamente compatibile» con il resto del globo quanto meno l’immagine che gli individui «Weird» hanno di se stessi.

L’impasse dal quale alcune pagine particolarmente delicate del testo di Diamond non scampano è d’altronde proprio relativa al fatto di avere osservato male in passato. Molto ci sarebbe, quindi, ancora da fare; ma poiché non si trova più nessuno che – come i «selvaggi» del primo contatto di Michael Leahy – ricambi in qualche modo le nostra attenzioni, i rischi che ci attendono non sono pochi. Per esempio, finire noi stessi per credere che dentro i nostri grammofoni suoni ancora il disco rotto di quell’alterità che cominciamo a considerare tale solo quando ha cessato di perturbarci davvero e comincia grottescamente a danzare.