Le sacrosante rivendicazioni che oggi la musica avanza a fronte delle indiscriminate chiusure dei propri luoghi elettivi, ricordano – in qualche modo – la supplica di Lillian McKinney al presidente Franklin Delano Roosevelt perché le si consentisse di diventare una buona cantante. Era il 1937, McKinney era una giovane afroamericana del Texas, e le sue parole si aggrappavano quantomeno alle chance di un sostegno finanziario ai musicisti o aspiranti tali del Federal Music Project, ramo del più ampio programma di incentivi del Federal Project Number One nato in seno al New Deal. La Grande Depressione aveva colpito duramente i musicisti. E un musicista, il direttore d’orchestra Nikolai Sokoloff, fu l’uomo incaricato di rispondere alla crisi.

Sotto la sua supervisione fu istituito il Composers’ Forum-Laboratory per incentivare alla composizione di nuove musiche. I numeri furono enormi, più di 1400 compositori intervennero. Fra i contributi più importanti, quelli di Aaron Copland, Virgil Thomson, Roy Harris, Roger Sessions e Howard Hanson. Una buona quantità di denaro fu spesa per la ricerca e la registrazione della musica popolare: dalle canzoni delle pianure del Texas a quelle creole della Louisiana, dai folksongs delle colline del Kentucky agli spiritual della Carolina, ai canti dei coloni e dei nativi americani dell’Oklahoma, alla musica liturgica delle missioni californiane.

A lato dell’insegnamento della musica ai bambini si avviarono inedite formule di musicoterapia. Fu sostenuta, infine, l’organizzazione di concerti in ogni angolo del paese. La critica d’arte Elizabeth McCausland arrivò a dire che non sarebbe stato insolito sentire sul retro di una casa colonica l’esecuzione di un Quartetto d’archi di Johannes Brahms. L’elevato numero di gruppi musicali costituiti nel corso degli anni Trenta rese necessaria una quantità elevata di parti strumentali e vocali. Al bisogno si rispose con un’azione che a tutta prima parve una sfida alla logica del mercato. Invece di comprare o noleggiare le partiture o le parti musicali, si assunse infatti del personale specializzato per copiarle. In breve tempo si formò un vero e proprio esercito di copisti e di rilegatori, il cui impiego arginò drasticamente la disoccupazione degli addetti alla cultura. Quei moderni amanuensi svolsero un lavoro certosino, che oggi è in corso di digitalizzazione.

Tutto ciò fu possibile grazie a una visione integrata e unitaria dei diversi rami della cultura e l’intervento politico evitò accuratamente la distribuzione a pioggia di denaro in forma assistenzialistica. Anche la Gran Bretagna, del resto, negli anni della seconda guerra mondiale, fu protagonista di una strategia che rivelava come la cultura venisse concepita quale parte integrante dello stato sociale: a questo scopo, venne istituito il Council for the Encouragement of Music and the Arts (Cema), l’organismo che precedette l’attuale Arts Council of England. Di quell’ente governativo il protagonista assoluto fu Henry Walford Davies, già Maestro di Musica del Re.

A partire dalle 25000 sterline del Pilgrim Trust del filantropo americano Edward Harkness, un gruppetto di donne fu inviato per tutta la campagna inglese a insegnare la musica a bambini e adulti, ad allestire ensemble vocali, strumentali o misti. Le protagoniste di questa poco nota storia, designate informalmente come «music travellers», si chiamavano Imogen Holst, Sybil Eaton, Ursula Nettleship, Christine Godwin, Anne Wood e Mary McDougall.

Nello sviluppo e nella diffusione del fare musica in forma amatoriale si nascondeva la stessa ragion d’essere del disegno governativo: ancora prima che sostenere economicamente gli artisti, il progetto intendeva tenere vivo ogni aspetto culturale, perché dalla tenuta morale e dal sostegno psicologico sarebbe derivato il nutrimento dell’intelletto. È da questa miscela di coraggio e di resa alla bellezza che sarebbero nate, in tutta la loro varietà e ricchezza di espressione, le civiltà musicali inglese e statunitense dei nostri giorni