Tra i vari «gran finali» del festival Romaeuropa, sempre più avanzato e prestigioso, compreso l’ultimo «gran finale» con i monumentali Berliner Philharmoniker, si sceglie lo Steve Reich interpretato dall’Ensemble InterContemporain, più punta di diamante che monumento, almeno sulla carta. Un Reich visto in progressione dagli esordi a oggi. L’oggi è rappresentato da un lavoro compiuto in simbiosi con il celebre artista visivo Gerhard Richter, intitolato semplicemente Reich/Richter. Ma è meglio fare cronaca cominciando dall’inizio del concerto. L’inizio con il brano più aurorale del compositore americano seduce al punto che sarà difficile essere obiettivi (godendo) con il Reich successivo. In Piano Phase (1967) per due pianoforti si trova il Reich minimalista più amato. Lo si è sempre definito matematico e certo lo è dal punto di vista dei procedimenti calcolati al millesimo. Ma è bene ricordare che nella matematica ci sono autentiche follie e non sono estranee le rivoluzioni. Qui abbiamo la ripetizione di cellule melodiche-ritmiche che mutano gradualmente, con spostamenti nel tempo che trasformano lievemente una piattaforma sonora ed esistenziale che è già trasformazione delle forme di vita date. Un po’ troppo placidi nella precisione Hidéki Nagano e Dimitri Vassilakis, i due pianisti membri dell’Ensemble InterContemporain. Servirebbe più dinamismo, più slancio, più gusto dell’ossessione/estasi metropolitana.

«EIGHT LINES» (1983) è per ensemble. La compagine parigina fondata da Pierre Boulez e diretta in questa occasione da George Jackson è all’altezza della sua fama? Non del tutto. Jackson è un giovane eclettico che potrebbe trovare lo swing che è mancato ai due pianisti. Invece si accontenta della nota perizia super del gruppo. Qui si incontra il Reich che a partire dalla celebre meravigliosa Music for 18 Musicians (1976) cerca di articolare, di arricchire, di sviluppare le frasi ripetute e sottoposte al processo di phasing. L’idea di dialogo tra frasi che si presentano simultaneamente su diversi piani è un po’ vanificata dal motivo fortemente ritmico «dominante» (flauti, pianoforti, clarinetti in evidenza), rispetto al quale le frasi degli archi sembrano a tratti funzionare da «accompagnamento». Difficile dire se questo particolare è dovuto agli interpreti o alla scrittura. Fascino enorme, comunque. L’opera sonora-visiva Reich/Richter è del 2019 ed è nata insieme alla realizzazione del film Moving Picture dello stesso Richter e della filmmaker Corinna Belz. L’ensemble annovera due vibrafoni, due pianoforti, due flauti, due oboi, un clarinetto e gli archi del classico quartetto.

C’È IDENTITÀ di processi e di scelte stilistiche tra i due principali autori? C’è didascalismo della musica? No. Il film all’inizio consiste in linee sottili di diversi colori che mutano continuamente la parte timbrica ma non la forma. La musica di Reich è invece attratta da un andamento «liquido», da una tendenza a sciogliere le linee delle frasi in chiazze sonore. E l’atmosfera è un po’ sognante un po’ pensosa. Poi, con un procedimento che è di suddivisione all’infinito, le pitture di Richter assumono altre forme, diventano come arazzi, hanno qualcosa di orientale, mentre Reich prosegue il suo lavoro di abbandono del minimalismo e disegna piccoli frammenti «sinfonici» con una tentazione di stasi, di riflessione permanente. Infine il film torna alle linee sottili colorate dell’inizio, in questo più reichiano della musica di Reich. Interpreti bravissimi e stavolta a loro completo agio.