«Oltrepassata una vecchia lamiera arrugginita […] mi trovavo lì, davanti a lui, con l’insolita richiesta di costruire una baracca nell’insediamento. Una domanda così, quell’omone dall’accento spiccatamente slavo, proprio non se l’aspettava». È sfogliando le pagine dell’ultimo capitolo che ci si trova in mano la chiave di lettura di La razza zingara, (Tau editrice, pp. 180, euro 15), di Carlo Stasolla. Si intitola «Io c’ero», è collocato in fondo al libro ma racconta l’inizio della storia e svela il punto di osservazione di chi l’ha scritta.

Il 6 maggio 1988 l’autore, 23 anni, ha in testa le immagini delle diffuse proteste anti-rom e in tasca le parole di Zingaro fratello mio, un testo di don Vincenzo Florio uscito nel 1980. Senza sapere bene perché entra in una baraccopoli e si ritrova a celebrare la festa di San Giorgio. Due mesi dopo si rivolge a Mustafà, l’omone di origini slave, per avere il permesso di trasferirsi al di là del muro di lamiera. «Perché vuoi stare a vivere da noi?», è la domanda a cui dovrà rispondere molte volte dopo aver compiuto una scelta spiazzante per italiani e zingari, gagé e rom. Il gesto di attraversare il confine è la premessa per rivelarne il carattere artificiale.

Per una decina d’anni Stasolla vive nei campi, tra Quarto Miglio, Casilino 900 e La Barbuta. Si sposa e con la nascita di un figlio, «un legame di sangue in linea verticale», può essere «a tutti gli effetti considerato di etnia rom». Nelle periferie urbane e sociali della capitale diventa un osservatore privilegiato del «sistema campi». Da lì ascolta i «piani nomadi», poi diventati «piani rom», ritualmente presentati da ogni nuova amministrazione capitolina: dal 17 giugno 1994, sindaco Rutelli, al 31 maggio 2017, sindaca Raggi. Ogni volta ne verifica il fallimento.

Per fuggirne gli effetti, verso la fine degli anni ’90, diventa insieme ad altre famiglie un nomade forzato, costretto a spostarsi continuamente nelle intercapedini della metropoli. Dopo una breve tregua in provincia, su un terreno acquistato collettivamente che potrebbe diventare casa, vive un «senso di colpa di fronte alla sofferenza di parenti e amici rom». Nel 2002 torna a Roma per continuare la battaglia, questa volta «dalla parte di chi sta fuori».

In La razza zingara Stasolla ricostruisce con precisione minuziosa quel pezzo di storia romana che parte da via del Mandrione e arriva a Castel Romano, dal primo insediamento stanziale degli anni ’60 al più grande campo attualmente esistente. Gli zingari, i nomadi, i rom rendono visibile il confine delle politiche urbane e delle teorie antropologiche perché si trovano ogni volta collocati all’esterno: fuori dal diritto ad avere una casa; fuori dalla possibilità di avere una storia.

Mentre i sindaci del Pci Argan e Petroselli fanno scomparire i baraccamenti romani garantendo le case popolari, in città si diffondono gli insediamenti informali dei rom. Le discriminazioni si coagulano in esplosioni di odio che portano a manifestazioni e barricate ogni volta che ne viene annunciato l’arrivo. Il «razzismo democratico», che con le teorie della razza condivide l’interpretazione essenzialista delle differenze culturali, definisce lo schema di lettura e governo della questione. Si inaugurano politiche speciali ed emergenze su base etnica. Nascono enti dedicati e linee di finanziamento specifiche. Nelle comunità sono selezionati leader e referenti. La morte di Tito (la cui fotografia campeggiava dentro molte baracche del Casilino 900) e la conseguente guerra in Jugoslavia, la caduta di Ceausescu e la ricerca di un capro espiatorio per la crisi in Romania creano profughi che l’Italia trasforma in nomadi. Invece dell’asilo e di un centro di accoglienza, ricevono invisibilità e campi.

I diversi stadi che definiscono questo modello sono analizzati setacciando i risvolti delle politiche nazionali, regionali e comunali. A partire dalle «Norme in favore dei rom» che la Regione Lazio approva il 24 maggio 1985: «uno spartiacque fondamentale che allontanerà Roma e l’Italia dal resto dei paesi europei» dando il via alla creazione istituzionale dei campi rom, in base a un approccio rigidamente culturalista per proteggere una presunta identità zingara.

Con disincanto Stasolla descrive la combinazione di misure fallimentari e azioni di forza inutili che porta in città una sorta di gioco delle tre carte: le persone sono braccate, spostate, disperse, ma alla fine ricompaiono un poco più in là. «Non evaporano», scriverà il 12 novembre 2020 in occasione dell’ultimo sgombero romano, quello del Fosso di Sant’Agnese. Operazione che la sindaca Raggi definisce su Twitter «bonifica».

«Il campo rom – si legge ancora nel libro – rappresenta non solo un’area di concentramento monoetnico ma anche e soprattutto un’ideologia. Superare definitivamente un insediamento non vuol dire solo svuotarlo dalle persone buttando giù i container, ma modificare il pensiero collettivo che è alla base di quel dispositivo».

La proposta politica per farla finita con i campi emerge tra le righe del libro e viene agitata a gran voce nelle battaglie sostenute dall’Associazione 21 Luglio, di cui Stasolla è presidente: eliminare le politiche speciali su base etnica, riempire con i diritti sociali un vuoto per troppo tempo nascosto dai discorsi sulle differenze culturali.