Negli ultimi anni la figura dell’animale sta conoscendo una sorta di riposizionamento sia all’interno del dibattito filosofico-scientifico che dentro un orizzonte culturale più ampio, quello della società dello spettacolo. L’adorazione new-age di una natura perduta ne costituisce l’estremità più conforme a un capitalismo allo stremo, in cerca di nicchie di mercato sempre nuove. Al polo opposto, sta il tentativo di costruire un’antropologia critica che parta dal presupposto per cui solo tramite il confronto con gli altri animali diventano comprensibili alcuni dei limiti e delle capacità di quella strana forma di vita che chiamiamo Homo sapiens.

A questo proposito, nel secolo appena trascorso in ambito statunitense è stato svolto un grande lavoro di semina: le ricerche sul campo delle scienze cognitive e la filosofia morale di personaggi come Peter Singer hanno contribuito a non distogliere l’attenzione dagli animali. Anche il vecchio continente non si è tirato indietro, grazie all’etologia classica di Konrad Lorenz e Nikolaas Tinbergen, e alla biologia eterodossa di studiosi come Jakob J. von Uexküll e Adolf Portmann, che un giorno studiavano i polmoni di mare e quello dopo andavano a passeggio con Rilke o con Jung. È proprio da questi contesti che è nato un intero vocabolario – parole come «imprinting», «ambiente», «istinto» – che oggi costituisce il luogo comune da cui trarre metafore in grado di animare tanto il più asfittico dei dipartimenti universitari quanto le chiacchiere da bar, dove risuonano, inconsapevoli della loro origine, espressioni come «istinto del gol», «ambiente accademico», «imprinting amoroso».

Il libro di Bruno Accarino Zoologia politica Favole, mostri e macchine (Mimesis, pp. 228, euro 20,00) ha il merito di evidenziare un filo rosso all’interno di un discorso vigente che corre costantemente il pericolo di essere tanto affascinante quanto radicalmente impolitico. L’autore non si limita alla denuncia del fatto che gli animali non umani sono di solito utilizzati dai sapiens come specchio nel quale riflettere timori e speranze; mette, invece, in evidenza un aspetto che questa sorta di «rinascimento animale» affronta assai di rado. Attraverso un impressionante lavoro di raccolta e di analisi, Zoologia politica organizza per somiglianze di famiglia alcune delle modalità con le quali il pensiero occidentale ha impiegato figure animali per rappresentare un aspetto centrale della vita umana: l’agire politico.

Il testo attinge con radicalità alle fonti più diverse: tanto alle favole di La Fontaine (bollate dalla vulgata come un semplice cumulo di stereotipi) che alla linguistica di Benveniste. E prende dalla Repubblica di Platone come da Gli uccelli di Hitchcock. Il risultato è l’opposto simmetrico di una deriva eclettica: un dissodamento dichiaratamente incompleto che apre a nuovi orizzonti di ricerca. Ne deriva la constatazione per cui le proiezioni delle nostre ambivalenze sugli animali finiscono sempre per farle ritornare al mittente, tradendo le ambiguità di quelle nostre proiezioni e mostrandone le aporie, che permangono non solo irrisolte ma, alla fin fine, amplificate.

Guardiamo alla figura del lupo: l’antagonista di Cappuccetto Rosso, che ancora oggi fa capitolare ogni bambino ribelle al sonno, è il soggetto che anima una colonna del fondamento teorico dello Stato nazionale, il Leviatano di Hobbes. Ma basta affondare il colpo per far emergere sorprese: il lupo incarna non solo un pericolo fratricida ma anche la forma del suo contenimento. Per un verso Hobbes teorizza la necessità di un’entità istituzionale monopolista della decisione, che scongiuri la guerra civile. Per un altro l’homo homini lupus trova il suo contraltare nel sovrano, sempre sul filo del rasoio della tirannide e dell’ingiustizia. Sono forme politiche spesso paragonate (tanto da Platone quanto dallo stesso Hobbes nel De cive) alle azioni tipiche del lupo.

La lupa è origine di un impero. In quanto progenitrice di Romolo e Remo era una delle immagini preferite da Benito Mussolini; in quanto animale in carne e ossa fino ai primi anni sessanta passeggiava in una gabbia vicina al Campidoglio. Ma il lupo può farsi mannaro: simbolo di un’umanità compromessa e liminare, capace di scatenare la rabbia più cieca di una bestia che si immagina feroce e sempre pronta a rialzare il muso.

Da questo punto di vista il Leviatano costituisce il tentativo di risolvere le ambivalenze del lupo con il risultato di produrre una figura altrettanto stratificata: è forma di vita mitologica che non rimanda più a un animale reale, per giunta a noi molto prossimo grazie alle sue parentele con il cane. Il Leviatano è un essere mostruoso e fantastico, il cui potere evocativo rimanda all’ammonimento teologico e prefigura l’incubo notturno. In una delle sezioni più avvincenti del testo, Accarino mostra la sua trasformazione ottocentesca in un romanzo apparentemente innocente come Moby Dick di Melville. Tra quelle pagine, il Leviatano si trasforma e da animale fantastico di terra (un serpente drago secondo la tradizione biblica) diviene balena, un essere enorme ma dallo statuto incerto come ogni mammifero di mare. Il capitano Achab, che dell’animale costituisce contemporaneamente il nemico e il doppio, sembra incarnare una forma di autorità vicina a quella del potere carismatico. Non è solo l’entusiasta eroe omerico posseduto dall’azione ma una figura irragionevole e idiosincratica che dello Stato tradizionale è ormai quasi l’antitesi.

Il lungo conflitto tra la balena e il capitano mette in evidenza una serie di contraddizioni, che hanno a che vedere con le difficoltà di una istituzione nazionale nel districarsi con le sue tensioni interne. Ed ecco che la proiezione umana sull’animale torna al punto di partenza, e nel tragitto inverso si carica di una forza duplice, agendo come un inesorabile boomerang. Né la situazione si fa più semplice nei casi di metafore che utilizzino figure animali in grado di rappresentare non più il controllo e il potere, ma la sovversione e la rivolta: in questo caso, è la figura dello sciame a prestarsi come la più interessante e la più attuale. Per un verso lo sciame rimanda non tanto a un animale quanto a una delle sue forme organizzative: può essere di uccelli quanto di api o zanzare, e la sua forma astratta sì presta a un uso metaforico in grado di cogliere alcuni aspetti della robotica contemporanea. Ad esempio, la cosiddetta Swarm intelligence è una forma di intelligenza artificiale non più concentrata in un microprocessore centrale (come nei computer casalinghi) ma in piccoli agenti informatici ad azione collettiva, in grado di far funzionare tanto veicoli militari privi di pilota che reti di produzione.

Allo stesso tempo, la metafora dello sciame è stata proposta come modello per un sistema di azione politica in grado di autorganizzarsi, privo di vertici e confini territoriali, capace di lavorare nel tempo del declino di ogni istituzione statale. Questa nuova forma di «antagonismo politico» – Accarino si riferisce esplicitamente all’esempio fornito dal saggio Moltitudine di Hardt e Negri – viene ritenuta però ambigua, e per almeno due ragioni non banali. La prima è che, seppur involontariamente, l’idea dello sciame riproduce lo stesso modello dell’azienda liquida e onnipresente che, proprio perché diffusa, è totalizzante. La seconda ragione è che lo sciame sembra eludere il problema del conflitto interno e dell’attrito con la realtà. Proprio perché entità così volatile e inafferrabile rischia di diventare come il fantasmino Casper: capace di attraversare i muri ma inabile a trasformare il mondo materiale.