Il giorno prima delle esplosioni al porto che hanno spazzato via mezza Beirut, il paese era alle prese con un aumento dei casi di Covid-19 che stava mettendo a dura prova la tenuta delle strutture sanitarie, schiacciate dalla crisi finanziaria.

GLI OSPEDALI segnalavano la carenza di forniture mediche; le continue interruzioni di corrente che costringevano a riversare soldi nell’acquisto di carburante per i generatori; le difficoltà a pagare il personale, che hanno portato negli ultimi mesi a licenziamenti e tagli agli stipendi. «Se il governo non tira fuori un piano di salvataggio, sarà la catastrofe», aveva detto a luglio Selim Abi Saleh, segretario del sindacato dei medici del Libano settentrionale, all’Associated Press.

LA CATASTROFE, però, è arrivata sotto forma di una gigantesca deflagrazione che ha messo fuori uso tre ospedali e ne ha danneggiati altri due, uccidendo sei persone di turno nei nosocomi colpiti. Inoltre, si legge in un report dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sono andati distrutti 17 container di forniture mediche. «Due giorni deliranti», racconta chiedendo l’anonimato un medico dell’American University Medical Center (Aubmc), uno degli ospedali più antichi e prestigiosi del paese che all’inizio di luglio ha licenziato centinaia di persone. «Abbiamo curato circa 500 feriti, per 48 ore abbiamo lavorato incessantemente e abbiamo impiegato circa il 50% delle nostre forniture mediche, ovviamente senza far pagare nessuno».

L’Aubmc, infatti, è un ospedale privato come lo sono l’85% delle strutture sanitarie del Libano. Sono spesso eccellenze, con servizi specializzati e in grado di utilizzare tecniche chirurgiche avanzate che attirano pazienti da tutta la regione. L’accesso ovviamente è a pagamento, tramite il caotico sistema delle assicurazioni, secondo una logica economica neoliberista che per decenni ha favorito la privatizzazione di quasi tutti i servizi per i cittadini. Gli ospedali privati sono emersi dominanti alla fine di 15 anni di guerra civile (1975-90), durante i quali il settore pubblico ha dovuto affidarsi ai privati, e finanziarli, per soccorrere le vittime del conflitto.

LA RICOSTRUZIONE, accentrata nelle mani di Rafiq Hariri, senza una vera riforma del sistema burocratico, non ha fatto altro che indebolire lo stato e rafforzare le reti clientelari del sistema settario libanese. Sebbene la spesa sociale sia bassa, il settore pubblico è gonfiato dalle eccessive assunzioni clientelari. La privatizzazione di molti servizi ha arricchito una classe dirigente corrotta, e in carica da decenni, contro cui i libanesi scendono in piazza dallo scorso ottobre. Clientelismo in cambio di voti e lealtà. Questo meccanismo ha coinvolto tutto lo spettro politico libanese, in cui ognuno ha referenti esteri, regionali e internazionali, interessati ad avere un peso in questo piccolo paese al centro dello scacchiere mediorientale.

TUTTO CIÒ HA PORTATO IL LIBANO alla bancarotta, con quasi il 50% della popolazione sotto la soglia di povertà, una moneta svalutata del 70%, nessuna previdenza sociale e scorte di cereali e carburante in via di esaurimento nel giro di settimane. In questo quadro si inseriscono gli aiuti internazionali cui è ormai vincolata la sopravvivenza del Libano che sta negoziando da mesi con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e tutta la comunità internazionale.

«SE IL SISTEMA SANITARIO pubblico libanese è un paziente in terapia intensiva, i donatori intenazionali sono il ventilatore», scriveva ad aprile il giornalista e ricercatore libanese Kareem Chehayeb a proposito dell’emergenza Covid-19. Questo è ancora più vero dopo il disastro provocato dalle esplosioni di martedì, ma gli aiuti non arriveranno senza condizioni e le condizioni sono sempre le stesse: tagli al pubblico, più privato, più mercato.

La ricetta, dice Chehayeb, è stantia: «L’esperimento libanese di neoliberismo e corruzione ha dimostrato cosa succede a una società con poca o nessuna regolamentazione governativa o protezione sociale».