La storia, in Cina come altrove, diventa spesso strumento per giustificare il controllo su un determinato territorio, popolazione, o tradizione. Quando analizzata, tuttavia, la storia spesso ci offre una visione più complessa, fluida, e certamente plurale.

Il Xinjiang, nella Cina nord-occidentale, non rappresenta un’eccezione, e così nessuno dei gruppi etnici che oggi vivono in regione può vantare una qualche forma di esclusività che ne giustifichi pienamente le rivendicazioni storiche.

Non gli uiguri, popolazione musulmana e turcofona che oggi rappresenta circa il 45% della popolazione del Xinjiang. Per quanto gli uiguri si considerino gli abitanti originari, autoctoni, del Xinjiang, la loro identità attuale è per lo più il risultato di una recente invenzione. La prima apparizione del termine risale all’ottavo secolo, in riferimento ad una confederazione nomade turca, originaria della Mongolia odierna, che fondò un regno nei pressi di Turpan.

Gli uiguri di Turpan si convertirono al manicheismo prima e al buddhismo poi, e di fronte alla rapida avanzata islamica in Asia centrale il termine «uiguri» passò ad indicare, fino al sedicesimo secolo, tutte quelle genti turche del Xinjiang che ancora non si erano convertite all’islam. Dal sedicesimo secolo, quando di fatto l’intera popolazione del Xinjiang meridionale diventò musulmana, l’etonimo sparì, per ricompare solamente nel ventesimo secolo negli studi di etnografi russi prima, e cinesi poi, in riferimento alle popolazioni turcofone e musulmane del Xinjiang meridionale.

Ancora in epoca Qing infatti, gli abitanti delle oasi del Taklamakan non possedevano nessuna categoria etnica all’interno della quale potersi definire, identificandosi piuttosto secondo l’oasi di appartenenza oppure, più semplicemente, come «musulmani».

In linea di massima si può sostenere che le popolazioni turcofone del Xinjiang meridionale sono state storicamente contraddistinte da una marcata frammentazione culturale, politica, ed economica, la quale ha favorito la nascita di forti identità locali spesso in conflitto tra loro. Questo ha permesso alle potenze periferiche interessate ai ricchi commerci regionali di sfruttare a piacimento la tecnica del divide et impera, guadagnandosi in questo modo il controllo – perlopiù indiretto – del territorio. Un discorso valido per i cinesi, ma anche per gli eserciti nomadi provenienti da nord che hanno a più riprese conquistato il sud della regione.

Le varie dinastie cinesi, in particolare, hanno sempre avuto relazioni piuttosto complesse e movimentate con questa estrema periferia. Le Regioni Occidentali – come era noto il Xinjiang nelle fonti cinesi fino al 1884, quando venne incorporato come provincia dall’impero Qing – hanno tradizionalmente goduto di particolare attenzione da parte degli strateghi di corte.

Da un lato, una delle più serie minacce alla sopravvivenza delle varie dinastie cinesi è costantemente arrivata da nord, dalle popolazioni nomadi della fascia stepposa. Il controllo del Xinjiang orientale ha così spesso rappresentato un obiettivo primario in funzione difensiva: mettere in sicurezza le Regioni Occidentali significava prevenire ogni possibile attacco ai territori interni. In secondo luogo la Cina era interessata al controllo delle vie carovaniere – la cosiddetta via della seta – per ragioni tanto economiche quanto di prestigio.

Ciò non significa che la Cina abbia sempre governato questi territori, e nemmeno che si sia sempre prodigata per raggiungere questo obiettivo. Al contrario, per buona parte della sua storia i domini imperiali terminavano alle cosiddette fortificazioni del Gansu, a diverse centinaia di chilometri dai confini orientali del Xinjiang odierno. Il Xinjiang ha così finito per ricoprire un ruolo da pivot all’interno del continente eurasiatico, snodo ideale per merci, popoli, e culture. Un discorso valido fin dall’età del bronzo, quando attraverso il Xinjiang passarono una serie di tecnologie e prodotti che risultarono fondamentali allo sviluppo della civiltà cinese nel bacino del fiume Giallo.

In epoca Han, quando per la prima volta truppe cinesi arrivarono in Xinjiang, la regione era già al centro di scambi e interazioni tra cinesi, popolazioni nomadi delle steppe, ed il lontano impero romano con il quale rapporti diretti non furono mai istituti solamente a causa dell’opposizione dei parti. Tramite il Xinjiang, inoltre, zoroastrismo, manicheismo, e soprattutto buddhismo sono arrivati in Cina.

Oggi, tuttavia, la versione ufficiale del governo di Pechino vuole che il Xinjiang sia, da oltre 2000 anni, parte integrante della Cina. Gli uiguri sono invece convinti, al contrario, che il dominio cinese sul Xinjiang sia frutto di avvenimenti recenti, e si considerano gli unici abitanti autoctoni di questa terra.

Oggi il Xinjiang è, ufficialmente, una regione autonoma, ma molti uiguri, che si sentono «musulmani» o anche «turchi» prima che «cinesi», non credono a questa autonomia, ritenendo che il governo ignori le loro necessità, e che in ultima istanza lavori intenzionalmente contro di esse.

Le radici dello scontro sono dunque diverse e numerose: etniche, economiche, politiche, strategiche, e religiose. Ragioni che sembrano infine ritornare continuamente alla storia delle rispettive etnie e civiltà, o meglio, alle letture affatto particolari che i due gruppi sembrano offrire di questa storia.