Oggi alle 12 Giuseppe Conte affronterà la prova del fuoco. Quando il professore di Diritto catapultato a palazzo Chigi prenderà la parola di fronte all’aula del Senato per chiedere la fiducia, gli occhi saranno puntati su di lui più di quanto sia mai avvenuto in passato. Sia perché non era mai successo che qualcuno passasse nell’arco di pochissime settimane da un relativo anonimato alla guida del Paese, sia perché il Contratto su cui si baserà il programma di governo presenta ampie zone di ambiguità e lascia margini anche più ampi di discrezionalità.

CONTE DEDICHERÀ certamente una parte del suo discorso a rassicurare Bruxelles e il Quirinale, che altrettanto certamente spinge in questa direzione. Assicurerà che l’Italia è e vuole restare parte integrante della Ue e che, pur chiedendo modifiche concordate, non ha alcuna velleità di uscita dalla moneta comune. Ma queste sono dichiarazioni dovute. Le spine arriveranno quando Conte dovrà parlare delle riforme promesse, di quando realizzarle, di come finanziarle.

Al primo posto c’è la Flat tax, che è tale solo di nome dal momento che prevede due aliquote e non una sola. Quanto la faccenda sia complicata lo ha dimostrato ieri proprio il partito che della «tassa piatta» ha fatto il proprio cavallo di battaglia, la Lega. Ha aperto il ballo Alberto Bagnai, agguerrito anti-euro proveniente dalla sinistra e quasi certamente futuro sottosegretario all’Economia. «Mi pare che ci sia un accordo per far partire la Flat tax dai redditi d’impresa il primo anno e poi, dal secondo, per le famiglie». Armando Siri, uomo di fiducia del leader in materia di conti, lo rintuzza: «Allo stato posso dire che entrerà in vigore anche per le famiglie subito. Poi tutto entrerà a regime nel 2020». Claudio Borghi, che della Lega è l’economista principe, però la pensa come Bagnai: «Riuscire a fare tutto per la finanziaria di quest’anno è un po’ ambizioso. Potrebbe essere logico, per questione di tempi, mettere la Flat tax prima per le imprese».

IL PD AZZANNA con un coro nutrito: «Ma la Flat tax per le imprese c’è già. La ha messa Renzi». Il problema, in tutta evidenza, riguarda più i soldi che le «questioni di tempo». Dove trovarli è un problema. Il contratto parla di «pace fiscale», cioè di un maxicondono. Il ministro dell’Economia Tria ipotizzava, quando ancora era un provato cittadino, di pescare le coperture con l’aumento dell’Iva, idea che però non può non risultare più che sgradita alla Lega, e al suo elettorato.

Altrettanto poco chiara, nel Contratto, è l’altra voce principale in materia di riforme economiche, quella targata 5S, il reddito di cittadinanza. La Lega lo voleva a termine, una specie di sussidio di disoccupazione, visione condivisa anche da Tria. Sembrava che ce l’avesse fatta e che fosse limitato a due anni, poi M5S ha chiarito che no, i due anni sono solo il termine entro il quale fare le tre proposte di lavoro previste dalla norma. Però un velo di incertezza è rimasto, così come resta oscuro se il reddito dovrebbe applicarsi a tutte le regioni o solo ad alcune, e con quali tempi. Se Conte non lo dirà apertamente oggi vorrà dire che per il governo quelli sono ancora solo punti interrogativi.

Sarà altrettanto decisivo vedere se il premier scioglierà il mistero sulla sorte della Tav e del Terzo Valico. Il Contratto è evasivo e le due Grandi Opere, come per la verità l’intero modello di sviluppo, costituiscono il principale punto di divisione strategico tra i due partiti della maggioranza. La nomina di Toninelli a ministro sembra indicare che a spuntarla sia stato M5S, ma anche qui bisognerà attendere le parole di Conte per saperne, forse, di più. Proprio come sulle «modifiche» alla Fornero, che saranno certamente annunciate, anche se probabilmente non nel dettaglio. Dovrebbe trattarsi della famosa «Quota 100», ma con una quantità al momento imprecisata di «finestre».

MA IL BRACCIO DI FERRO tra M5S e Lega è già in corso, più che sulle dichiarazioni programmatiche, sul fronte ben più concreto e immediato delle nomine. Prima di tutto su quella alle telecomunicazioni, che è quasi un ministero in sé e che è vitale per Berlusconi, a tutt’oggi coalizzato con Salvini. I due ne hanno parlato ieri, nel primo colloquio diretto dopo parecchio tempo, e Salvini reclama per la Lega, nella persona proprio di Siri, la nomina che Di Maio vorrebbe invece per se stesso.

Nei prossimi giorni arriverà l’ondata delle nomine, incluse quelle nevralgiche alla Rai e alla Cassa depositi e prestiti. Ma per oggi si tratta ancora di verificare la fiducia. La maggioranza parte al Senato da 167 voti certi, 6 più della maggioranza assoluta, più 4 probabili. Ma dall’altra parte le astensioni di FdI e di una parte delle Autonomie agevoleranno ulteriormente la nuova maggioranza.