È frequente e un po’ ingenua presso l’elettorato progressista, altrettanto frequente ma forse più interessata presso l’elettore di destra, l’opinione che il Partito democratico (Pd) abbia in sé l’eredità politica del Partito comunista italiano.

Ci si dimentica o forse ci si vuole dimenticare che il Partito democratico (Pd) è frutto della fusione nel 2007 fra i Ds (Democratici di Sinistra), già segnati dalla scissione di Sinistra Democratica, e il movimento Democrazia è Libertà (Dl) più noto coma Margherita, che aveva concentrato esponenti della cultura cristiano-democratica e liberal-democratica in parte provenienti dalla frammentazione della Democrazia cristiana.

Dal 2007 a oggi il Pd ha avuto sette segretari oltre a due reggenti. Solo tre di loro – Veltroni, Bersani e Zingaretti – venivano dal vecchio Pci. L’equivoco sulle origini del partito ha retto persino quando ad assumerne la direzione è stato Matteo Renzi che con le sue scelte di governo – dal Jobs Act alla Buona Scuola che neppure il berlusconismo era riuscito a realizzare – ha oggettivamente collocato il Pd nell’area del centro-destra. Ha retto ma solo in parte perché il partito, in meno di tre lustri, ha più che dimezzato i voti, passando dai 12 milioni del 2008 ai 5,4 milioni del 2022.

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A beneficiare del progressivo assottigliamento elettorale però non sono stati, se non in minima parte, le diverse formazioni che nel tempo si sono collocate alla sua sinistra. Nel 2008 la Sinistra Arcobaleno e il Pcl (Partito Comunista dei Lavoratori) avevano ottenuto 1,2 milioni di voti e nell’ultima tornata elettorale i suffragi andati all’Alleanza Verdi e Sinistra e all’Unione Popolare sono stati poco più che 1,4 milioni, un bacino elettorale rimasto pressoché insensibile al progressivo allontanamento del Pd dal campo socialdemocratico.

L’elettorato di sinistra, e più generalmente progressista, si è via via rifugiato in parte nell’astensione volata dal 20 al 36% e in parte ha fatto altre scelte, dal Movimento di Di Pietro (Italia dei Valori) a quello di Grillo (Movimento 5 Stelle).
Il prossimo congresso del Pd potrebbe sciogliere definitivamente l’equivoco sulla sua natura. Sarebbe auspicabile per l’intera politica italiana e non solo per quel partito.

La candidatura alla segreteria della giovane Elly Schlein, indipendentemente dall’esito che avrà, servirà anche a questo. Schlein non esita a definirsi di sinistra e ha messo al centro della sua attenzione e dei suoi programmi le disuguaglianze sociali e territoriali, la crisi ambientale.

Gli iscritti e i simpatizzanti del Pd hanno dunque se lo vogliono, la possibilità di far compiere a quel partito una radicale svolta rispetto al corso attuale. Il significato di una eventuale sconfitta della Schlein sarebbe chiaro, il Pd confermerebbe la sua adesione al campo liberaldemocratico respingendo l’ipotesi di conversione in senso socialdemocratico.

A sinistra si aprirebbe uno spazio politico ed elettorale maggiore che non nel passato sempre che le frammentate sigle siano in grado di coglierlo e ad avvantaggiarsene non siano ancora una volta l’astensione e i movimenti di protesta. Ma se, prima tra gli iscritti del Nazareno e poi tra gli elettori alle primarie aperte, Schlein, viceversa, dovesse vincere la sua scommessa, allora si aprirebbe una pagina nuova per tutta la sinistra italiana.

Il nuovo corso democratico, o il Partito del Lavoro – se così dovesse chiamars -, potrebbe far recuperare parte dei consensi persi dagli anni di Veltroni sino ai tempi più recenti di Letta.

Le forze più radicali non dovrebbero far fatica nel riconoscerlo come naturale alleato contro le destre e, forse, sarebbero chiamati a una scelta anche più impegnativa: restare minoranze di opposizione nel Paese o rappresentare, senza rinunciare alla propria radicalità, la minoranza all’interno di un partito che può governare l’Italia come la sinistra di Jeremy Corbin nel Labour inglese o quella di Bernie Sanders nel Partito Democratico negli Stati uniti.