C’è una parola araba, ‘má’, che al nostro orecchio può suonare abbreviazione o sillaba della parola ‘madre’. E pur se in arabo mà vuol dire ‘acqua’, assimilarla a madre trova ragione nelle tante valenze religiose, rituali, economiche, sociali, che l’acqua ha assunto nel mondo arabo. Lì, l’acqua è stata assai più che altrove generatrice di vita; simbolo di purificazione del corpo e dello spirito, di accostamento e vicinanza del credente a Dio; elemento indispensabile agli uomini per costruire e regnare. Sintesi perfetta di tutto ciò è il titolo della mostra in corso al Museo di Arte Orientale di Torino: ‘Goccia a goccia dal cielo cade la vita. Acqua, Islam e arte’, centoventi reperti e quattro sezioni espositive: Religione, Hammam, L’acqua da bere: uso pubblico e convivialità, Giardini. L’eredità antica. Scrive Marco Guglielminotti, direttore del museo, andando oltre la mostra «Una maggior attenzione alla cultura islamica ricopre inoltre… un significato particolare nel momento storico che stiamo vivendo…». Nello specifico, maggior attenzione alla cultura islamica significa arrivare ad ammirare il bicchiere siriano di cristallo, il tappeto a giardino persiano, la miniatura indiana, l’indicatore segna Mecca, il bacile egiziano, come oggetti che suscitano meraviglia e come espressioni di una civiltà che nel suo rapporto spirituale e materiale con l’acqua raggiunse livelli altissimi. Tentiamo dunque un’imbastitura narrativa del percorso.

Il Corano cita l’acqua, dalla rugiada al mare, almeno sessanta volte, dono di Dio all’uomo nella sua esistenza terrena e in quella dopo la morte; sostanza purificatrice nell’abluzione che deve precedere la preghiera in moschea. Chiarisce a questo proposito il curatore della mostra, Alessandro Vanoli «L’impurità è considerata una fatto di natura, e non è associata a un concetto morale. Basandosi su dati coranici e su tradizioni, infatti, i giuristi musulmani precisano che lo stato di impurità può essere maggiore… o minore». Nel primo, che implica il lavaggio totale del corpo, rientrano il rapporto sessuale e per le donne le mestruazioni; nel secondo, tra gli altri fattori, il sonno, i bisogni fisiologici e la perdita di sangue, mondati grazie all’abluzione, per tre volte, di mani, bocca, narici, viso, avambracci, gomiti, testa, collo, barba, orecchie, piedi fino alle caviglie. Le pratiche religiose portarono a includere e legittimare l’hammam tra le istituzioni pubbliche legate all’acqua. In principio fu il balaneion greco, bagno di calore sprigionato dalle sorgenti sotterranee, che arrivò a utilizzare tecniche evolute di riscaldamento e strutture appositamente dedicate.

I romani trasformarono i balaneion in thermae, facendone centri di abituale frequentazione e condivisione. Le thermae sopravvissero al declino dell’Impero, e gli arabi le scoprirono in epoca medioevale, a Bisanzio. Per parlare di acque calde, scrive ancora Vanoli, gli arabi avevano un termine di riferimento «… veniva da un’antica radice semitica, hm, il cui significato era appunto ‘caldo’… in accadico aveva dato ememu, in aramaico hamam… In arabo c’era hamm… il nome per designare il luogo dove questo calore si sprigionava venne probabilmente da sé: hammam». Se alcuni racconti del 900 favoleggiano di migliaia di hammam a Baghdad, ciò sta però a indicare che da privilegio di nobili e califfi erano già divenuti presenza caratteristica nelle grandi città e non solo, strutturati assimilando i modelli greci e romani. Continua Vanoli «C’è un senso religioso in tutto questo… che a ben guardare è all’origine stessa della diffusione dell’hammam nel mondo islamico…

Grazie a quell’acqua purificatrice, l’hammam consente la purezza rituale del musulmano». Rigidamente separati, uomini e donne riservavano parte del tempo a tingere gli uni la barba e i capelli, le altre a truccare gli occhi e a decorare la pelle con l’henné. In mezzo ai vapori si svolgevano incontri di affari, si stipulavano accordi economici, si combinavano matrimoni. L’hammam era innegabilmente ammantato di una valenza erotica, ben diversa tuttavia dalla visione distorta e lussuriosa che molti resoconti di viaggio avrebbero consegnato nell’800 all’Europa. Difficile entrare in un bagno turco (così gli occidentali presero a chiamarlo), assai più facile abbandonarsi a fantasie non prive di una vena di razzismo. Tecniche e sistemi per lo sfruttamento dell’acqua giunsero agli arabi dalla Mesopotamia, dalla Persia, e in epoche più vicine dagli ingegneri idraulici della Roma imperiale. L’Islam seppe sfruttare al meglio anche le sorgenti e i fiumi più modesti, elaborò e innovò le reti dei canali di approvvigionamento e distribuzione, costruì pozzi e cisterne. Intorno all’acqua pubblica nacque un complesso apparato giuridico.

Di nuovo Vanoli «I giuristi elaborarono lunghissime discussioni in cui classificavano le acque a seconda delle infrastrutture che le gestivano, il loro uso, il modo di procurarle..». Sottile distinzione: le acque correnti e sotterrane venivano considerate proprietà comune, mentre i mezzi impiegati per il loro sfruttamento potevano essere di proprietà privata. E se per la dottrina musulmana il potere temporale non era obbligato a garantire il bene pubblico, lo stesso potere vedeva nell’acqua un mezzo per garantirsi il favore del popolo. Le fontane, semplici o sontuose, divennero una costante del paesaggio urbano arabo, segno di benevolenza da parte del sovrano. Infine l’acqua e il giardino islamico. Replica simbolica del paradiso descritto nel Corano, nella sua struttura era invece assimilabile all’oasi, tregua di riposo, protezione dal deserto ostile.

Letteratura e architettura araba hanno lasciato testimonianze esaurienti soltanto dei giardini monumentali su cui affacciavano i palazzi patrizi e di governo. Sappiamo che palme, fiori, alberi di spezie, zampilli e laghetti erano scenario ideale per conversare, bere, ascoltare musica, tessere corteggiamenti; oppure luogo di convivi, mujalasa, durante i quali si declamavano opere letterarie. Tutt’altro che secondaria la funzione politica del giardino, sottolineata a volte dalla sua stessa conformazione. La varietà del disegno, le differenza nelle modulazioni degli spazi riproducevano le divisioni territoriali, ribadendo all’ospite, qualunque fosse la ragione della sua visita, l’importanza di chi lo accoglieva. Per secoli e secoli, goccia a goccia, má, l’acqua, la madre, ha alimentato una civiltà cui l’Occidente intero continua a dovere qualcosa.

I REPERTI: OPERE PREZIOSE, MANUFATTI ANTICHI, LIBRI E MINIATURE La luce sale da terra, si ferma su due colonne di pietra squadrata, toglie all’oscurità i profili degli archi a sesto acuto. Sulla parete di fondo, in lontananza, un grande tappeto colorato, davanti al quale gorgoglia una pozza azzurra e rotonda. Metamorfosi espositiva e provvisoria, gli interni di Palazzo Mazzonis, tardo Rinascimento e poi barocco, somigliano a quelle piccole moschee di Istanbul, invisibili agli occhi dei turisti affrettati. Poco più in là, un ruscello illusorio scorre sotto i passi del visitatore. Abbandonarsi alla suggestione è stato d’animo ideale per entrare nelle quatto dimensioni della mostra, dove, dietro il cristallo di ciascuna vetrina, l’arte di maestri orafi, intagliatori, tessitori, ceramisti, miniaturisti, pittori, vetrai diventa sintesi magnifica della storia che unisce l’acqua all’Islam.

Una storia raccontata grazie al patrimonio del MAO e ai prestiti di musei, fondazioni, privati, biblioteche, italiani ed esteri. Tra loro i musei Correr, del Bargello, dell’Alhambra, Poldi Pezzoli, delle Cappelle Medicee, di Capodimonte, il Museum for Islamic Art di Gerusalemme; la Biblioteca Vaticana, la britannica Aron Collection «Lasciare il villaggio per me era un po’come morire, e l’acqua divenne il mio talismano. L’acqua è all’origine del villaggio, ne custodisce la memoria, la storia, i conflitti, i segreti… l’anima. Perciò mi sono immerso e ho bevuto da tutti i pozzi» (Ahmed Abodehman, La cintura). La ciotola in bronzo da divinazione, Siria, Dodicesimo secolo, rivela che l’acqua superò i confini delle pratiche dettate dal Corano per divenire omaggio ai defunti e tramite fondamentale nei rituali di magia. Magie artigiane di stretta osservanza sono invece il bacile risalente all’epoca del sultanato egiziano di Muhammad Ibn Qalawun, 1293 – 1341, con iscrizioni istoriate su ottone in argento e oro; il tappeto a preghiera, Persia, Sedicesimo secolo, con motivi floreali e versetti; l’indicatore da viaggio segna Mecca, forse opera dell’armeno Al Barun Al Muktari, 1738, che porta una bussola incorporata nel tondo inferiore del pannello. Storia sorprendente porta con sé la bottiglia in cristallo di rocca divenuta reliquiario.

Originaria dell’Egitto, Decimo secolo, in epoca rinascimentale il fiorentino Bernardo Baldini ornò la sommità del collo e la base con una montatura in oro e smalto. «Proseguirono per una stanza un po’più grande, un tepidarium, dove un paio di donne stavano a sudare su lastroni di pietra, avvolte in un asciugamano, e da lì passarono al calidarium… Lo spazio era ampio e solforoso, e dardi di luce provenienti dalle finestre grigliate, nel tetto, trafiggevano le nubi di vapore e incenso che sorgevano dall’acqua… Quel luogo era pieno di donne nude che scomparivano e ricomparivano tra le nuvole» (Robert Irwin, I cuscini da preghiera di carne).

La contrapposizione tra hammam reale e immaginato appare in tutta la sua evidenza confrontando un frammento quattrocentesco della Makhzan al asrar, poema del Dodicesimo secolo di Nizami Ganjavi, con il dipinto a olio, metà ’700, di Gevork Mehredum. La scena del primo fissa una situazione di assoluta normalità, uomini con la vita avvolta in un asciugamano, altri che fanno la doccia o la sauna. Il secondo ritrae un gruppo di donne seminude, intente a truccarsi, massaggiarsi, spiarsi l’un l’altra. L’hammam, nido di lussuria ad uso delle fantasie erotiche dell’Occidente. I vapori dell’acqua calda si spalmavano sulle pareti di ceramiche colorate. Quelle esposte furono prodotte a Siviglia e Valencia tra ’400 e ’500. Poi i secchielli e i bacili da Siria, Afghanistan, Persia, antichi di mezzo millennio; gli specchi, gli aspersori, i caffetani, le caraffe, i porta profumi sui quali, però, grava il sospetto che fossero granate.

«L’acqua abbonda tanto a Damasco, che in tutte le case ci sono fontane; quelle che si vedono nelle strade servono solo per innaffiare. Queste acque formano una moltitudine di canali… Le persone agiate bevono quella (l’acqua, ndr) di una sorgente particolare che proviene dalle filtrazioni del Tora, la cui acqua è estremamente chiara, leggera e delicata. Proprio questa usavo io regolarmente, anche se avevo una bella fontana di marmo in mezzo al salone, tre nello studio e altre all’interno della casa» (Domingo Badìa y Leblich, Viaggio in Siria e Palestina). Il distributore d’acqua egiziano in marmo, otto secoli la sua età, apre il terzo capitolo. Dieci filtri, di nuovo egiziani, terrecotte dell’anno Mille; sette bocche di fontana in bronzo, Siria, dal ’400 all’800; la splendida ceramica turchese di una bottiglia persiana settecentesca, con collo e inserti in ottone; l’acquamanile a forma di volatile, Spagna, Undicesimo secolo. E ancora, versatoi, brocche, vassoi, coppe.

Merita contemplazione la ciotola persiana con figure di cavalieri, danzatori e musici, lavoro di incredibile bellezza e pazienza orafa. Il ruscello illusorio termina il suo corso sfociando nella sala del tappeto caucasico a giardino, ottocentesco. Lo decorano cinque doppie file di alberi fioriti e un asse centrale di quattro fontane da cui originano altrettanti chaharbag, giardini quadrati che alludono al paradiso del Corano. Sulle altre pareti, una lastra di marmo rosa, parte di una fonte indiana, e un pannello pakistano di mattonelle bianche e blu. A terra e al centro, un bacino turco scolpito a bassorilievo dieci secoli fa. Il giardino luogo di delizie rivive nella miniatura delle giovani bagnanti in una vasca con fiori di loto, India, 1680; le opere che portavano linfa alla sua vegetazione, nel frammento di una conduttura dell’Alhambra; le voci e le risa degli invitati, nelle fiasche e nelle brocche un tempo colme di vino. «La descrizione del giardino che è stato promesso ai timorati di Dio è così: vi saranno fiumi di acqua incorruttibile, e fiumi di latte dal gusto immutabile, e fiumi di vino delizioso a chi beve, e fiumi di miele purissimo.

Ed ivi essi godranno di ogni frutto, e del perdono ancora del Signore….» (Corano, XLVII, 15)Acqua, Islam e Arte. Goccia a goccia dal cielo cade la vitaMAO, Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, TorinoFino al primo settembre, info maotorino.itIl catalogo, 190 pagine, 34 euro, è pubblicato da Silvana Editoriale e merita il piccolo investimento economico. Il saggio introduttivo del curatore Alessandro Vanoli, opportunamente lontano dalla prosa accademica, affronta con grande chiarezza le quattro sezioni della mostra, fornendo inoltre una ricca bibliografia cui attingere per approfondire ciascun argomento. Buona la qualità delle immagini, che riproducono tutti i reperti in mostra.