Per alcuni abitanti del «villaggio della solidarietà» di Castel Romano, il campo rom più grande della capitale, si aprono finalmente le porte di una casa popolare. Quindici persone sono già entrate in un alloggio pubblico, dodici lo faranno tra oggi e domani, una famiglia è in attesa delle chiavi, per alcune altre la ricerca è in corso. I numeri sono piccoli, ma il precedente è grosso. Riguarda i due terzi dei 77 abitanti dell’area F del campo situato nella riserva naturale di Decima Malafede, sequestrato a luglio scorso in un’inchiesta per reati ambientali.

Rischiavano di subire uno sgombero senza alternativa, come disposto dall’ordinanza 25 firmata dalla sindaca Raggi il 12 febbraio 2021. Invece le loro mobilitazioni, sostenute dall’Associazione 21 Luglio, hanno strappato una prima vittoria. Che afferma come il superamento delle baraccopoli può avvenire solo con la garanzia di diritti sociali universali. Per primo quello alla casa. Il 26 gennaio lo avevano gridato in Campidoglio: «Basta politiche speciali sulla nostra pelle, sbloccate le assegnazioni di case popolari».

La giunta 5S sembra aver recepito questa richiesta, certificando di fatto il fallimento del «Piano rom» che aveva annunciato, come di consueto nel panorama politico romano, dopo l’insediamento. Le assegnazioni delle case andranno a persone già presenti in graduatoria, spesso in posizioni molto alte, ma attraverso una riserva prevista dal regolamento regionale del 20 settembre 2000 per le situazioni di estrema fragilità. «Per la prima volta il Comune di Roma attinge al patrimonio di edilizia residenziale pubblica per rispondere a uno sgombero. È un precedente importantissimo», afferma Carlo Stasolla, della 21 Luglio.

Critiche si sono sollevate dalla consigliera regionale leghista Laura Corrotti. Ma il paradosso è che la prima sperimentazione di questa procedura – pur in modo controverso, provvisorio e al termine di una campagna anti-rom – è stata a Ferrara, dal sindaco Alan Fabbri. Della Lega.