Calcio e letteratura un rapporto poco conosciuto e studiato in Italia. Quali i motivi? La scrittura giornalistica sul calcio può essere assurta a letteratura? Pochi i casi meritevoli. E gli intellettuali di sinistra, che tifavano sotto voce, si abbassarono a trattare il calcio alla stessa stregua di coloro che animavano la chiacchiera da Bar Sport o elevarono il calcio a letteratura? Dobbiamo arrenderci al «biscardismo» oppure la letteratura del calcio può arginare il fenomeno? Ne parliamo con Sergio Giuntini, autore di Calcio e Letteratura in Italia (1892- 2015), (Biblion edizioni, euro 25,00).
Perché la letteratura del calcio è stata poco indagata in Italia?
L’Italia è un Paese che consuma bulimicamente calcio. Ne viene proposto un uso smodato: oggi soprattutto televisivo, ma anche giornalistico con i tre quotidiano sportivi nazionali che in pratica dovrebbero essere «generalisti» ma in realtà raccontano e straparlano solo ed esclusivamente di calcio. Tutto ciò ha prodotto un’ipertrofia della scrittura calcistica, che dagli anni del fascismo a oggi vanta una bibliografia sterminata. Ha prevalso purtroppo la quantità sulla qualità e questo credo abbia scoraggiato i ricercatori e gli studiosi accademici, che infatti di calcio si sono occupati prevalentemente in relazione al suo linguaggio e agli apporti derivatene alla nostra lingua parlata. Il mio libro si sforza proprio di superare questo limite, cercando di proporre una mappa ragionata con la quale orientarsi all’interno di questo enorme patrimonio magmatico.
Il tuo è stato un tentativo di riflettere sulla storia socio-culturale del calcio in Italia?
Questo saggio metodologicamente mira proprio a ricostruire una storia sociale e culturale del calcio attraverso la sua letteratura «ampia» che va dai manuali agli articoli di giornale, dalla poesia alla prosa, dal racconto al romanzo al saggio storico. Il tutto evitando delle troppo sottili e snobistiche distinzioni tra cultura alta e bassa. Come infatti giudicare numerosi e straordinari articoli di Gianni Brera: giornalismo, esercizio retorico e linguistico d’alta scuola o letteratura pura? E come non iniziare a raccontare una storia del calcio in Italia se non partendo dai suoi primi manuali militari e civili del 1892? Allora, era questa la vera letteratura del calcio: quella che insegnava le regole a un popolo che impazziva e conosceva solo il «pallone al bracciale» amato anche da Leopardi.
Gli scrittori di sinistra tifosi di calcio: Pratolini, Sereni, Gatto, Soldati, Del Buono, che erano espressione della cultura alta, contrapposti a giornalisti-scrittori come Brera e Ghirelli, espressione della cultura bassa, oppure la letteratura del calcio abbraccia entrambi i generi?
Il fascismo aveva puntato molto sul calcio, strumentalizzandolo per fini politici tesi a catturare il consenso. Caduto il regime si ha quindi finalmente un ritorno al calcio anche da parte di quegli intellettuali che avevano subito e vissuto con sofferenza queste manipolazioni. Non stupisce quindi che molti intellettuali di sinistra se ne riapproprino da autentici e semplici tifosi: da Pratolini tifoso della Fiorentina ai milanisti Gatto, Del Buono, e aggiungerei Elio Vittorini e Giansiro Ferrata, all’interista Sereni, allo juventino Soldati. Il calcio, per loro, nell’Italia democratica diventa una sorta di autentica «religione civile» degli italiani: c’è la domenica religiosa da un lato, e la domenica «laica» della partita nella quale il tifo è ancora qualcosa di veramente popolare e sentito senza faziosità. Basti pensare allo choc nazionale terribile che la scomparsa del Grande Torino susciterà in quell’Italia post-bellica che, intorno a tale sciagura (memorabili gli articoli al riguardo di Buzzati e Montanelli), si unisce coralmente in un lutto vissuto da tutti, indipendentemente dalle appartenenze calcistiche, come una propria perdita.
Negli anni ’60 Pasolini e Bianciardi considerarono il calcio meritevole di trattazione culturale o si abbassarono anche loro alla chiacchiera da Bar Sport?
Soprattutto Pasolini amava visceralmente il calcio, lo giocava e lo seguiva con una passione straordinaria. Amava il Bologna, quanto Bianciardi, un «riveriano» convinto, il Milan. Da qui il loro tentativo, soprattutto pasoliniano, di interpretarlo anche in una chiave semiologica. Memorabile il suo articolo-saggio su Il Giorno del gennaio 1971 intitolato «Il calcio è un lunguaggio con i suoi poeti prosatori». Bianciardi, più goliardico, avendo preso il posto di Brera alla posta del Guerin Sportivo, si divertiva «a scriversi» delle lettere immaginifiche e autoreferenziali, cui poi rispondeva sempre con formidabile verve e ironia. Proprio loro, pur non disprezzando i Bar sport, iniziarono a superarli mostrando quanto il calcio si presti a capire la società e le sue contraddizioni.
Negli anni ’70 anche nel rapporto tra calcio e letteratura prevale l’ideologia di sinistra (Vinnai, Sollier ecc.)?
È proprio così: «Il calcio come ideologia» (1970) di Gerhard Vinnai e «Calci e sputi e colpi di testa» di Paolo Sollier infransero un tabù. Portarono la contestazione e la demistificazione in un ambito, quello calcistico, la cui presunta neutralità mascherava in realtà delle forti simpatie destrorse. Vinnai mostrò quanto il calcio fosse un tipico prodotto del sistema e del mercato capitalistico, Sollier ne disvelò gli aspetti più volgari, qualunquisti, «machisti» e la povertà umana e morale dei suoi tanti strapagati addetti.
In quegli anni anche il Guerin Sportivo diretto da uno di destra come Italo Cucci annoverava fior di intellettuali di sinistra?
Italo Cucci non ha mai nascosto il suo stare dichiaratamente a destra, all’estrema destra. Ciò nonostante, è vero, durante le sue direzione del Guerin Sportivo fu molto «ecumenico» dando spazio anche a scrittori e artisti di sinistra quali Dario Fo, Domenico Rea, Natalia Aspesi, Sergio Zavoli, Antonio Ghirelli ecc. Queste aperture erano tuttavia compensate e largamente vanificate dal suo tentativo di fare del «Guerino» un discutibile settimanale per soli uomini con immagini di attrici e aspiranti «veline» largamente discinte. Un modo per rafforzare l’idea del calcio come «gioco maschio» e maschilista per eccellenza. Un po’ fascista, insomma.
Il «biscardismo» nei media è ormai dilagante, la letteratura del calcio può arginare questo fenomeno?
Può e deve. Una ripresa di qualità della letteratura calcistica italiana, di cui si colgono i migliori frutti in questi ultimi anni, appare proprio una specie di rivolta morale al rozzo «biscardismo» iniziato negli anni ’80; e il punto di svolta in questo senso va considerato il numero 16 del maggio 1998 (sulla letteratura del calcio) della rivista «Panta» curato da Sandro Veronesi.
Nel lungo periodo da te analizzato (1892-2015) il ruolo della stampa sportiva è sempre stato di asservimento, durante il fascismo o oggi all’industria-spettacolo, oppure ha avuto anche una funzione positiva e autonoma?
Purtroppo devo confermare le tue impressioni. Il livello generale della stampa sportiva – ossia calcistica – italiana è sempre stato attento a non urtare i potenti, politici od economici che fossero. L’unico che ha potuto permettersi un discreto tasso di autonomia critica è stato Brera, così forte del suo talento e infatti poco amato dalla maggioranza dei colleghi coevi.
Gli anni 2000 hanno dato spazio anche a una letteratura al femminile. Una novità in un campo a lungo ritenuto esclusivamente maschile?
Due nomi su tutti: Licia Granello, finché ha avuto voglia di scrivere di calcio, ed Emanuela Audisio, assai più efficace e colta di molti suo colleghi maschi. Ma al calcio hanno dedicato anche degli interessanti romanzi Donatella Evangelista, Cristina Grober, Giuliana Olivero, Mariella Caporale, Elisa Daboglio, Deborah Brizzi.
In quale direzione va la letteratura del calcio nei prossimi anni?
Le due tendenze prevalenti mi paiono queste: da un lato si assiste a un certo ripiegamento estetico sul bello del calcio, facendone una sorta di luogo della memoria o un punto di vista puramente autobiografico e personale. Dall’altro vi è invece chi tenta di calarsi maggiormente nelle sue metamorfosi e derive, cogliendone le dimensioni antropologiche e sociali con uno spirito e critico e in qualche caso persino militante. Tra le due, io preferisco la seconda.
Quali, tra i titoli più recenti ti sentiresti di suggerire?
Nell’ordine opererei questa cernita: Il mister (2000) di Manlio Cancogni; Zamora (2003) e La lunga (2007) di Roberto Perrone; Rembo (2006) di Davide Enia; Il mio nome è Nedo Ludi (2006) di Pippo Russo; Addio al calcio (2010) di Valerio Magrelli; Atletico Minaccia Football Club (2012) di Marco Marsullo;Il resto della settimana (2015) di Maurizio De Giovanni.