Un grande libro, un titolo aspro, non amabile: Sconfitti. Corrado Stajano entra ancora una volta con cruda esattezza nella storia, memoria, attualità del «sanguinante Novecento», sua passione etica civile, sempre raccontata alla ricerca di giustizia e verità. In una corrusca narrazione collettiva, Sconfitti (il Saggiatore «La Cultura», pp. 211, e 19,00) percorre per flashes il secolo più drammatico della storia occidentale, sempre definito all’insegna dei contrasti da chi ne ha tentato un bilancio: come «secolo degli opposti» (Marco Revelli) o di «progresso e catastrofe» (Salvatore Natoli).
Stajano (91 anni), giornalista, documentarista filmico e televisivo, scrittore, ha attraversato molto Novecento in prima linea contro degrado e corruzione, e ora «di necessità» prende le mosse dalla pandemia, «vento psicotico» che ha svelato le fragilità umane dietro le sciocche illusioni di onnipotenza. Ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera, il 6 ottobre: «Non so se qualcun altro riuscirà a farci vedere con tanta precisione classica e fermezza morale quei mesi terribili».
Il libro si apre e si chiude sul confuso oggi della pandemia: che Stajano vuole leggere come «la coda» nel «secolo nuovo» del tragico Novecento. Dopo una visione-presagio di morte nel cuore di Milano, sfilano con vorticoso montaggio sequenze e/o immagini: papa Francesco in piazza san Pietro deserta e lucida di pioggia, sgomento, paure, focolai, movida, Bollettini Sanitari TV delle 18, stralci letterari di passate epidemie, mascherine, vaccini, virologi, politici, e su tutto le orrende truffe nell’eterno «Paese dei corrotti» (Italo Calvino, 1980), il potere sovrano dei soldi («I soldi, i soldi»), la nuova mafia che ha figli e nipoti laureati e addottorati all’estero.
Al centro scorrono spezzoni di secolo dalla Seconda guerra a oggi nella chiave di «storie di sconfitti»: i nostoi del ’45 dai lager o dagli orrori bellici, il dopoguerra («La festa ha un tempo breve»; «La gioia della fine dura poco»), il declino della società contadina e lo scacco operaio, i cruenti scontri sociali del ’60 («Morti di Reggio Emilia uscite dalla fossa»), la chiesa di Pio XII e di padre Lombardi, il boom, il «consumismo luccicante», e sempre l’«odore dei soldi», i colpi di stato, le stragi di stato, le connivenze mafia-politica («Perché Giulio Andreotti … “è sbiancato in faccia”? È la chiave della strage»), la bomba di piazza Fontana e il caso Pinelli gravato dalla schiera funesta e nera accorsa a Milano degli uomini dei Servizi di Stato, Palermo «città di sangue» e «mattatoio», ai funerali di Dalla Chiesa il «grido» del cardinale Pappalardo («Povera la nostra Palermo! Chi mai ti salverà?») mentre «all’Ucciardone saltano i tappi di champagne», le parole testamentarie del giudice Falcone alla vigilia di Capaci («Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande»), la scomparsa della borsa marrone di Dalla Chiesa e dell’agenda rossa di Borsellino, la supplica di Rosaria Schifani, moglie dell’agente ucciso, agli «uomini della mafia» sempre nella chiesa di San Domenico. E l’avvento di Berlusconi, «statista», «affarista da romanzo di Balzac», con gli «affari di giustizia», e l’aspirazione (attualissima) alla Presidenza della Repubblica. I pezzi citati non rendono il coro potente di voci che irrompe dal libro.
Sul genere non mi voglio interrogare (è trita questione accademica), ma è certo che Stajano narra (e che va messo tra i narratori del Novecento, contrastando classificazioni e abitudini correnti). Sia per l’empatia e il dolore con cui mette in pagina un paese che «a 160 anni dall’Unità non sembra possedere ancora un’idea di nazione». Sia perché congiunge, in un disegno insieme limpido e tumultuoso, sentimento etico, «passione» e «tormento» della «verità» (come scrive a proposito di Pinelli), fiuto del politico e rigore dello storico (fitti i dati a testo e nelle sobrie note finali), ritratti umani affilati di maggiori e minori (l’attendente Nesi Domenico, Nuto Revelli, Italo Pietra, Ermanno Olmi, o Licia Pinelli, o Falcone), appunti acuti di costume (la giovanissima Mina o l’industriale Borghi della Ignis), drammi e sarcasmo, afflato collettivo e microstorie. Dove un «barlume di speranza» sopravvive forse nell’atto generoso della scrittura, «nonostante».
La narrazione è in paragrafi brevi o brevissimi, con molti dettagli, spesso di sghembo, battuti da luce sinistra, ritmati e scattanti, emotivi ma contenuti. Frequente l’assenza di verbi, e l’esplosione o in interrogative, o in elenchi a non finire, che restituiscono il caos vitale dell’esistenza: «Si balla al Castello, al Parco, in uno spiazzo tra le macerie di via Rovello, si balla all’Arco della Pace sotto un ritratto di Filippo Turati».
Il filo è cronologico, ma l’insieme è tenuto in unità soprattutto dai molti ricorsi interni: slittamenti memoriali e rete di Leitmotive: la guerra-catastrofe (vissuta dal narratore bambino, descritta con minuzia nelle schegge delle bombe); potere e soldi; pus e putrefazione della Milano corrotta (echi da Sereni e Raboni); la ricerca della «politica della dignità»; il disincanto delle sconfitte: dentro cui insiste il tema cruciale della democrazia italiana post-fascista non rinnovata a sufficienza nelle istituzioni: una «democrazia perennemente incompiuta».
Ibrido e inventivo il tessuto delle citazioni: poeti e scrittori di più epoche e culture, storici, saggisti, canti resistenziali o di protesta, canzoni, estratti da relazioni, atti di commissioni e verbali, articoli di giornali, ecc.
Scrive Gianandrea Piccioli su «Volere la luna», 9 ottobre: «In un mondo ideale Sconfitti sarebbe adottato in tutte le scuole superiori italiane». Avverrà questo «miracolo» civile? (vero è che pochi anni fa con inatteso anticonformismo un denso brano di storia italiana dal suo La cultura italiana del Novecento, 1966, fu scelto per essere commentato agli esami di maturità).