Le Marche feltresche sono già un poco Romagna (nei modi e negli accenti) e in odor di Toscana, e pure l’Umbria è vicina: Lamoli è in linea d’aria a 10 km dall’incrocio delle tre regioni. L’Italia Centrale è crocevia di molte cose, anche della storia di un colore che dall’Asia arriva in Europa, si impone a Nord, diventa di casa nel Montefeltro e va a tingere mantelli di sovrani francesi. E di nuovo finisce nel Nuovo Mondo, molto tempo più tardi, segnatamente nei pantaloni da lavoro fabbricati in tela di Genova (poi soppiantata dal denim) , i blue jeans che fanno ritorno in Europa come stracci per produrre carta. Da zucchero.

«Seguendo i giri che fanno le piante, le molecole colorate, ma anche ad esempio un metallo come il rame, si tracciano rotte e storie incredibili», ci racconta Alessandro Butta, spiegando che la carta da zucchero, dal colore azzurrino (azzurro è parola araba, per inciso, ché nell’antichità latina e greca si è faticato parecchio a vedere i toni di blu e persino a dedicargli una parola precisa) avvolgeva lo zucchero poco raffinato perché la nuance dell’indaco aveva un effetto sbiancante sui suoi granelli e conferiva al prodotto più gradevolezza e appetibilità. L’inverso di quel che accade ora insomma, ma tanta acqua è passata sotto i ponti sui ruscelli delle cartiere.

Il colore blu stesso ha conosciuto gradi di popolarità molto diversi, connotato negativamente per Greci e Romani e durante l’Alto Medio Evo, tra l’XI e il XIV secolo diventa il colore dell’aristocrazia (di Re Artù in particolare), della moda, della creazione artistica. Cambia la sua reputazione e la sua resa economica, ha testimonial importanti, come la Vergine Maria (fino ad allora non ammantata di celeste ma semplicemente vestita a lutto, di scuro), spadroneggia negli stemmi araldici, come oggi ancora nelle bandiere, in moltissimi loghi istituzionali, nella spunta rassicurante dei messaggi whatsapp, negli eterni schermi di ogni device che come Macbeth uccidono il nostro sonno. È il colore dell’Europa, piaccia o no, racconta Butta, indicato dalla stragrande maggioranza degli europei come colore preferito non solo nel duro 2020 a lui intitolato: il colore del cielo e del mare ha compiuto nei secoli una risalita nella reputazione, con vette nel Settecento germanico grazie alla moda lanciata dal Werther di Goethe (e dal suo abito blu con panciotto giallo: dopo di lui solo il Joker) e dopo che a fine Seicento era tornato colore accessibile anche alle classi meno abbienti e per questo considerato cheap. Un po’ come sintetizzato nella parabola del ceruleo nel monologo di Miranda Priestley sul Diavolo Veste Prada: ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo, e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee. Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo casual, dove tu evidentemente l’hai pescato nel cesto delle occasioni. Tuttavia quell’azzurro rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro.

E a fine Seicento risale anche la macina da guado che Maria Stella Rossi ha recuperato a Genova e messo in funzione a Lamoli, con scopi didattici, dimostrativi, di promozione e conoscenza di una tradizione tintoria di cui Butta, all’inaugurazione ha dato un saggio sciogliendo parte della sfera perfetta di cuccagna ottenuta dalla compressione della mola («il guado si presentava già con un packaging accattivante») in un bagno colore con l’aggiunta di soda e idrosolfito di sodio. La lana da neutra diventa color carta da zucchero, quella gialla tinta con reseda di un verde sincero e smagliante, in un affascinate gioco alchemico.

Ha spiegato Alessandro Butta nella sua dotta affabulazione scientifica, ma anche storica e sociale sui precursori dell’indaco contenuti nel guado, che i tessuti colorati con coloranti chimici lo sono in fabbriche di solito molto rispettose dell’ambiente nella lavorazione (i corsi d’acqua che li circondano son abitati da pesci, vivi e pimpanti) ma che i guai cominciano quando facciamo girare i capi dai colori sintetici in lavatrice. «Ciò non toglie purtroppo che anche la tintura naturale sia poco sostenibile: terra e piante non basterebbero a soddisfare la richiesta di blu. La soluzione potrebbe essere solo scegliere di avere meno vestiti». Con buona pace di Prada e del diavolo, e a proposito di presenze demoniache e lotte cromatiche: nel Medio Evo, che fu davvero fantastico come ci insegna Jurgis Baltrušaitis, si contrapponevano ferocemente tintori specializzati nel rosso (e mercanti di Robbia) e tintori di blu (e commercianti di guado, questo almeno fino all’avvento dell’Indaco delle Antille). I primi, spiega Michel Pastoureau in Blu, in Turingia, arrivarono a chiedere ai maestri vetrai di rappresentare in blu i diavoli nelle chiese per screditarne la moda dilagante.

Anche il termine angloamericano blues deriva dalla contrazione del sintagma blue devils: i geni del male di vivere virano all’azzurro, come certi Angeli del resto.
L’indaco di guado è tintura tipicamente tessile: la resa pittorica, ad esempio negli affreschi, non è la stessa, perché reagendo con la calce il colore diventa nero; la tinta ottenuta dal guado viene però rappresentata anche se ci sono autori che ne hanno usato pigmento per dipingere: Carlo Crivelli, attivo nelle Marche, Giovanni Santi, il padre di Raffaello che protegge la vicina Urbino. Anche San Sepolcro non è lontana, e lì il guado è casa in quella di Piero Della Francesca, figlio di commerciante di cuccagne, visitabile grazie alla Fondazione a lui intitolata.