Il multiforme intreccio di punti di vista, voci e narrazioni che costituisce l’architettura di Casa di foglie di Mark Z. Danielewski resta a tutt’oggi un enigma intricato e coinvolgente. A più di vent’anni dalla prima pubblicazione negli Stati Uniti , la complessa densità di segni testuali che gremiscono le pagine di questo singolare oggetto narrativo – spesso con font di colori e dimensioni diverse e attraverso un proliferare di note, citazioni e indici relativi a ogni dettaglio della trama – alimenta vivaci dibattiti sia in ambito accademico sia sul forum accessibile dalla pagina internet dell’autore, dove i lettori propongono e discutono le interpretazioni più recenti del romanzo.

Pubblicato per la prima volta in Italia da Mondadori nel 2005 e considerato la naturale evoluzione del romanzo enciclopedico postmoderno, Casa di foglie è tornato in libreria nel 2019 grazie a 66thand2nd, che lo ha ristampato in un’edizione più fedele al formato e ai colori dell’originale, con una nuova traduzione firmata da Sara Reggiani e Leonardo Taiuti. Lo stesso editore dà ora alle stampe Lettere da Whalestoe (traduzione di Leonardo Taiuti, pp. 112, € 12,00) volumetto contenente le lettere che Pelafina Heather Lièvre scrive nell’istituto psichiatrico in cui è ricoverata, il «Three Attic Whalestoe», indirizzandole al figlio Johnny Truant, uno dei narratori del romanzo.

Le lettere di Pelafina erano già incluse in una delle appendici di Casa di foglie, ma la ragione della loro pubblicazione in un volume separato (avvenuta in America in concomitanza con l’uscita del romanzo) va ricercata non tanto nell’aggiunta di undici missive – salvate dal fuoco, nella finzione narrativa, da un dipendente del Whalestoe che decide di darle alle stampe per testimoniare «tutto il fascino, la devozione, l’arguzia di Pelafina» – quanto forse in una dichiarazione rilasciata dallo stesso Danielewski in un’intervista a Larry McCaffery: «Ci sono molti modi per entrare in Casa di foglie. Preferisci passare da Johnny Truant o vuoi farlo attraverso la madre di Johnny? La sua voce è ugualmente importante, e per alcuni lettori questa si rivelerà la via migliore». In effetti, c’è chi ha ipotizzato che alcuni dettagli contenuti nelle lettere possano fornire una risposta a una delle questioni più dibattute della trama, quella relativa all’identità dell’autore/compilatore del libro. Forse non è un caso che il telegramma con cui il direttore dell’istituto informa Johnny della morte della madre riporta erroneamente il cognome della donna come «Ms. Livre».

Nei suoi scritti, la colta e poliglotta Pelafina asseconda i propri sbalzi di umore e alterna momenti di lucidità a violenti deliri paranoici che si manifestano anche nella disposizione del testo sulla pagina. Così facendo organizza di volta in volta la propria identità in base a modelli femminili opposti e ambivalenti tratti dalla letteratura e dal mito: la moglie puritana, amorevole ma ambigua, del protagonista di un famoso racconto di Hawthorne cede il passo alla strega che invoca Ecate «dai suoi abissi sull’Acheronte» per vendicare un torto subito dal figlio; alla madonna protettrice (una lettera è firmata «tua sola e unica Mary») si sostituisce la «vecchia Sibilla Cumana» decisa a non angustiarsi «per i sentimenti del mondo».

Oltre a offrire un ingresso privilegiato nel labirinto di Casa di foglie, quindi, le Lettere da Whalestoe costituiscono un’acuta meditazione sulla scrittura femminile e sul rapporto tra arte e follia. Del resto, il nome completo dell’istituto psichiatrico riecheggia il titolo del libro seminale di Sandra Gilbert e Susan Gubar sulle donne scrittrici dell’Ottocento, The Madwoman in the Attic, letteralmente «la pazza in soffitta».

«Whalestoe» rimanda anche alla balena di biblica (e melvilliana) memoria, e ciò arricchisce di un’ulteriore dimensione interpretativa la narratrice assente – outcast abbandonata e intrappolata nel ventre di un «Buco Infernale», un «regno di putrescenza» da cui è decisa a fuggire per donare al figlio un’opera-mondo: «Sotto una luce precoce escogiterò il racconto giusto, la narrazione perfetta, qualcosa di meritevole e grandioso da consegnare in seguito, molto più tardi».

Se da un lato, quindi, le missive – definite da Pelafina «foglie del mio ricordo» – testimoniano il progressivo sgretolamento della salute mentale della donna e la conseguente frantumazione della sua famiglia, dall’altro ci permettono di assistere alla costruzione di un’imponente architettura letteraria che promette «una rivelazione assoluta dell’intera completezza» – tramandata di madre in figlio.