Revolution, musica e ribelli 1966-1970 dai Beatles a Woodstock, una mostra che è già stata presentata al Victoria and Albert Museum di Londra, e che ora approda a Milano, alla Fabbrica del vapore, dove sarà visitabile sino al 4 aprile. Curata da Victoria Broackes e Geoffrey Marsh, con qualche iniezione di italianità (organizzano Avatar e Skira), la mostra è una festa, prima per le orecchie, cuffie Sennheiser accompagnano nei vari spazi con brani musicali che hanno fatto la storia della musica rock, poi anche per gli occhi grazie all’esibizione di oggetti e memorabilia che fanno riaffiorare nei più stagionati immagini e suoni talvolta dimenticati. Per avere un’idea di quel di cui si parla un consiglio, andate a vedere on line Tonite Let’s Make Love in London (vimeo.com/111691128), un’oretta di documentario realizzato da Peter Whitehead nel 1967 in cui si colgono molti elementi che permettono di capire al meglio il senso dell’intera mostra.

Infatti compare anche in un monitor subito, all’inizio, tra abiti e oggetti di Carnaby Street, Twiggy e Rita Tushingham, Mary Quant e gli stivaletti, Beatles e Rolling Stones e il Free Cinema. Un po’ alla volta si srotola tutto Blow Up e Sgt. Pepper, il maggio parigino e il Vietnam, la psichedelia e i Black Panther, l’ecologia e l’informatica, Martin Luther King e Che Guevara, la pop art e l’Lsd. Sembra impossibile che in un fazzoletto di mesi sia successo tutto quel che è successo cambiando la lettura del mondo, il costume e le vite di milioni di giovani.

E giustamente tutto si chiude su Woodstock con tanto di film da vedere sdraiati su sacchi imbottiti mentre Jimi Hendrix distorce magnificamente l’inno statunitense che per lungo tempo non potrà più essere lo stesso. Una rivoluzione? In un certo senso sì perché i cambiamenti sono stati radicali e profondi. E in un certo senso no perché già dal ’75 arriva la lady di ferro Margaret Thatcher e 5 anni dopo Ronald Reagan la prende a braccetto e con i loro complici all’insegna del liberismo devastano l’intero pianeta sia da un punto di vista sociale che politico.

E secondo il folletto Oreste Del Buono quel mezzo milione di giovani festanti a Woodstock sono stati il trionfo e il funerale perché da lì partì la devastazione di un’intera generazione grazie alla maliziosa diffusione dell’eroina che sconfisse la vitalità. Allora però quei segnali erano visti solo come repressione o se li si coglieva era per denunciare di essere all’Eve of Distruction con Barry McGuire mentre Bob Dylan dopo aver cantato The Times They are a Changin’sfilava i suoi cartelli testo davanti alla macchina da presa di Pennebaker che realizzava Don’t Look Back, offrendo un videoclip antelitteram di Subterranean Homesick Blues. Il bombardamento di suoni e immagini è ipnotico e affascinante, dalla prima Giornata della terra del 1970 al primo mouse, già, anche il computer portatile, in senso lato ma non troppo, è un figlio dei fiori, dalla seggiola di vimini di Huey Newton, con tanto di lancia e fucile, al corto The Big Shave di Scorsese.

Vale la pena di vedere e lasciarsi scorrere addosso le emozioni di questa mostra, nonostante i suoi 16 euro di caro biglietto (almeno la cuffia per seguire è compresa) e qualche (in)evitabile refuso.