Tutto inizia con la visione del film «Dirty daughters o La puttana e il figlio di puttana» (1981) culto dell’underground berlinese dell’Ovest. Dagmar Beiersdorf ha girato dal 1977 al 1997 una decina di film e molti di più come attrice per Lothar Lambert a cui è stata legata per decenni in sodalizio artistico e in profonda amicizia. Lothar Lambert è considerato l’Andy Warhol dell’underground della capitale e con i suoi quaranta film in quasi quarant’anni è l’unico nel panorama del cinema tedesco a potersi considerare un vero indipendente. Film a bassissimo budget finanziati di tasca propria di cui è stato quasi sempre anche attore, sceneggiatore, montatore, direttore della fotografia e distributore. Una marginalità non sempre tale se si considera la presenza dei suoi lavori a diverse Berlinali e il film «1 Berlin Harlem» acquistato dal MoMa di New York. Tuttavia, al di là delle esigenze di produzione, Lambert è fuori dal coro per le storie e i personaggi che racconta. Omosessuali, travestiti, stranieri per geografia ed esistenza, disturbati psichici, feticisti e depressi. Parlare di Dagmar Beiersdorf è dunque impossibile senza interpellare Lothar Lambert e qui si torna alle «dirty daughters» . Nel film in bianco e nero, crudo e brillante, la Beiersdorf interpreta la prostituta Rita e divide il marciapiede a ridosso del Tiergarten in una Berlino Ovest emaciata con il travestito Betty, ovvero Lambert. Rita inizia una stramba relazione con il richiedente asilo libanese Hossein (l’attore Mustafa Iskandarani reale compagno della Beiersdorf). Il film è pervaso da un senso del grottesco accessibile e privo di ogni dogma politico, non ci sono moralismi, non c’è vergogna e soprattutto nessuna pretesa politicamente corretta. Hossein viene mostrato con esilarante e amarissimo piglio nel suo essere alieno al milieu dei lavoratori del sesso che in apparenza non vivono alle frange estreme di una vita borghese (l’appartamento di Rita e il suo quartiere residenziale, le serate al night con Betty). Un film che avrebbe ancora moltissimo da dire sull’ integrazione di culture sideralmente lontane; Rita desidera una equilibrata storia d’amore, Hossein è in cerca di un permesso di soggiorno ma entrambi finiscono in una spirale di vittima e carnefice che presta il fianco ad una visione atipica di femminismo. La violenza domestica è vista senza tabù come un’espressione (reciproca) della potenza del corpo e senza neanche la rassegnazione di una donna malmenata. Uno «scandaloso» punto di vista che oggi avrebbe bisogno di un’armatura per affrontare la discussione pubblica. La stessa sorte spetta al tema del travestitismo che non è mai problematizzato né mostrato come fenomeno da baraccone. Una visione che resta, sopra ogni cinefilia, un grande spasso.
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