Presso il regio tribunale di Woolwich, è cominciato ieri a Londra il processo per l’estradizione negli Stati uniti di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks detenuto nel carcere londinese di Belmarsh dallo scorso settembre. Se finisse negli Usa, il 48enne australiano sarebbe sicuramente processato per spionaggio: su di lui pendono diciotto capi d’imputazione, tra cui cospirazione e hacking ai danni di database militari statunitensi.

È STATA UNA SESSIONE processuale segnata dalle azioni di disturbo di una fitta rappresentanza di dimostranti contro la sue detenzione, le cui grida si sentivano tanto distintamente nell’aula da interrompere più volte il procedimento. A un certo punto alcuni commessi del tribunale sono perfino usciti per invitare i protestanti ad abbassare, fuor di metafora, i toni.

La giornata è consistita nell’ascoltare gli avvocati di accusa e difesa nelle rispettive perorazioni. Nella persona di James Lewis, che rappresenta il governo nordamericano, l’accusa ha sostenuto che con le sue leaks Assange e Chelsea Manning – ex analista d’intelligence detenuta negli Usa che aveva procacciato i documenti all’organizzazione – avrebbero messo a repentaglio la vita di centinaia di dissidenti in Iraq e Afghanistan, esponendoli al rischio di «violenza, tortura e anche la morte». Per questo il giornalista-hacker è da considerarsi un criminale comune e non un perseguitato politico, come invece sostiene la difesa.

L’ESTRADIZIONE, ha ribattuto l’avvocato di Assange, Edward Fitzgerald, non va concessa per la natura politica delle accuse rivolte al suo assistito e soprattutto perché si sarebbe limitato a divulgare quanto ricevuto dalla stessa Manning e da altri. C’è poi la questione della salute dell’imputato. Dopo sette anni trascorsi in un tinello dell’ambasciata ecuadoregna a Londra, Assange è depresso e a rischio suicidio giacché, se estradato negli Usa, rischia qualcosa come 175 anni di carcere. L’essere stato ripetutamente filmato e registrato nell’ambasciata avrebbe inoltre contribuito ad aggravarne i disturbi mentali. Vi si era rifugiato per sfuggire ad accuse di stupro e molestie relative a dei fatti presumibilmente accaduti in Svezia, da lui sempre negate, nel timore che dalla Svezia agli Usa il passo sarebbe stato fin troppo breve. Ma il cambio della guardia ai vertici del paese sudamericano, con la sconfitta del presidente Rafael Correa, ne aveva brutalmente interrotto l’asilo lo scorso aprile: da allora è recluso a Belmarsh. Nel frattempo, lo scorso nevembre, lo stato svedese ha lasciato cadere le accuse con annessa la – propria – richiesta di estradizione.

Assange, Manning e Wikileaks sono colpevoli di aver sbattuto in faccia al mondo alcune delle porcate compiute nel nome della libertà e della democrazia dalla prima superpotenza militare del mondo, tra cui un famigerato video militare secretato in cui un elicottero Apache bombarda una dozzina d’innocenti, tra cui due impiegati dell’agenzia di stampa Reuters a Baghdad, nel 2007.

IN QUESTI ULTIMI GIORNI si sono susseguite voci di un’ipotetica grazia al giornalista australiano nientemeno che da Trump in persona, in cambio di una testimonianza circa la totale estraneità della Russia alle infiltrazioni telematiche nei database del comitato democratico nazionale. La Casa Bianca ha negato con veemenza.

Domenica nel centro della capitale si era svolta una manifestazione a favore di Assange che ha visto sul palco, tra gli altri, Brian Eno, Roger Waters, Vivienne Westwood e Yanis Varoufakis. L’udienza d’estradizione andrà avanti fino alla fine della settimana e proseguirà poi il prossimo 18 maggio.