L’agile saggio di Federico Bucci, Una tradizione architettonica. Maestri della Scuola di Milano (Tre Lune Edizioni, pp. 185, euro 20), raccolta tematica di vari suoi interventi in conferenze e convegni, ci permette di tornare su un argomento che è stato indagato con un’estesa quantità di studi nel corso degli ultimi anni rivolti sia alla storia del Politecnico milanese (dove Bucci è docente di storia dell’architettura), sia alle singole personalità che lì vi insegnarono.
Alcune di queste sono quelle di cui tratta l’autore, in ordine: Franco Albini, Ignazio Gardella, Ernesto N. Rogers, Carlo De Carli, Marco Zanuso, Guido Canella, Enrico Mantero e Antonio Monestiroli. L’elenco non è completo, su alcune di esse si sono ispessite le indagini, pensiamo ad Albini o Rogers, per altre si attende ancora di ritornarci, come ad esempio Giuseppe De Finetti.
Il dato rilevante, tuttavia, non sono le assenze, ma accogliere l’idea, una volta impiegata la definizione di «scuola», che lungo un periodo che va «dagli anni Trenta ai Novanta del Novecento i nostri protagonisti – come scrive Bucci – avrebbero potuto facilmente cambiare aule e discipline di insegnamento, e persino scambiarsi i nomi poiché risultano saldamente uniti da un comune linguaggio architettonico».

SAPPIAMO che quel «linguaggio» era quello dell’architettura moderna che a Milano voleva dire per gli architetti aderire alle correnti razionaliste, in continuità con i maestri d’oltralpe, per primi Gropius e Le Corbusier.
Il multiforme panorama delle posizioni, etiche ed estetiche derivanti dalla lezione del Movimento moderno, che questi fecero proprie non può essere inteso, tuttavia, come la reductio ad unum a una «scuola»: modo diverso, ma nella sostanza identico, di presentare una «modernità compatta» come la definì Werner Oechslin.
Guido Canella, al quale pure si deve la fortuna critica di questa tesi (A proposito della Scuola di Milano, 2010), disse che la «scuola» andava intesa come parte di uno dei tre «schieramenti» ai quali gli architetti, nella seconda metà del secolo scorso, erano riconducibili. Il primo era composto da chi intendeva l’architettura come «espressione di civiltà», c’era poi quello di coloro che si fecero interpreti dell’efficienza della tecnica per la produzione urbana e infine quello di chi praticava un’«architettura di evasione», ma di questo Canella, come ricordò Monestiroli, «non ama(va) parlare».
Bucci si occupa del primo di questi «schieramenti» e ne tratteggia i caratteri: sono «gli spazi atmosferici» di Albini, dove l’architettura si fa «mediatrice» dell’invenzione con l’esistente, è l’«eleganza» di Gardella data dalla forma che affonda le sue «radici nella vita», è la «civiltà architettonica» attesa da Rogers, è lo «spazio primario» di De Carli, anti monumentale perché essenziale e intimista, per giungere alla logica del «fatto costruttivo» di Zanuso, alla «koiné espressionista» di Canella, all’«intelligenza metafisica» di Mantero e le «forme necessarie» di Monestiroli.

È DA QUEST’ULTIMO, con il quale Bucci fu legato da sincera amicizia, che nell’intervista a chiusura del libro si ricava che alla fine ciò che accomunò molti maestri della Scuola di Milano non è stato il linguaggio, ma un «metodo» che sulla base di principi razionali perveniva alla conoscenza e alla risoluzione dei problemi.
Difficile purtroppo intravederlo oggi poiché con la fine della lunga stagione dei «maestri», questo «metodo» s’è dissolto, rendendo afasico chi aspirava a esserne erede. Le ragioni sono molteplici in parte riconducibili all’ideologia della modernità, in parte al dominio del mondo neoliberista.

PER RESTARE AL CASO di Milano ne è prova immanente proprio l’immagine della città con le sue trasformazioni subite giorno per giorno che proseguono secondo strategie urbane, linguaggi e configurazioni architettoniche che sono in netta antitesi rispetto alla lezione dei maestri che Bucci ci restituisce nei loro caratteri essenziali. «Ora tutto questo è perduto» titolano vari disegni di Aldo Rossi. Di questo occorre, forse, prenderne definitivamente atto per non idealizzare la storia e magari contrastare con modelli e comportamenti nuovi il rischio di una deriva dell’architettura contemporanea con le sue estreme forme estetizzanti.