La partecipazione all’associazionismo sociale diventa una scuola di democrazia quando i partiti di massa perdono identità e ruolo e si trasformano nella vetrina del leader di turno. Roberto Biorcio e Tommaso Vitale, curatori della ricerca collettiva sulla storia della partecipazione sociale nel nostro paese Italia civile (Donzelli, pp.213, euro 28), rilanciano la tesi di Alexis Tocqueville in un’epoca iniziata con Tangentopoli e oggi definita «postdemocratica».
La tesi non considera la «società civile» come un aggregato apolitico. Questa categoria è considerata l’antagonista «naturale» della società politica (la «casta»), ma non coglie i meccanismi della socializzazione politica in una società dov’è cambiato il significato del conflitto. La «società civile», in sé, non produce identificazione. Lo fanno le pratiche, e gli interessi, di cui la nuova generazione dell’associazionismo è portatrice. La ricerca si sofferma sulla capacità di «fare lobbying» e la capacità di organizzare proteste visibili in piazza e sui social network.

Il «fare lobbying» è inteso in due modi: è l’esercizio legittimo di gruppi di interessi sociali o imprenditoriali rispetto ai decisori politici; all’italiana, ovvero esercizio coperto di interessi – di classe, ad esempio – per imporre una linea al governo. Non è escluso che il «fare lobbying» sia entrambe le cose. Italia civile evidenzia una terza possibilità riconoscibile nella storia recente dei movimenti nel lavoro autonomo: i soggetti si autoconvocano per denunciare un problema – spesso non intellegibile dal resto del mondo. Usano i social media, e un fitto calendario di incontri dal vivo e campagne che durano anni. In questo modo rendono comprensibile un problema previdenziale, fiscale o sociale generale.

I partiti e i sindacati non li comprendono, cercano di usarli, li deviano e disinformano. I social media sono uno strumento di resistenza e di creazione di consenso. Servono a mobilitare e vincere la lotta sull’interpretazione di parole e politiche. Il criterio guida è quello di adottare norme che rispettino le condizioni materiali di vita.
Il conflitto non finisce qui: anche in caso di adozione di una legge, le incomprensioni continuano. Come le lotte. Oggi sono saltati i corpi intermedi e, con gli smartphone, si parla direttamente con il governo. Questa dinamica può scatenare, in alcuni casi, movimenti di massa come M15 in Spagna, Occupy Wall Street o altri nel mondo arabo. In queste occasioni l’istanza specializzata o la richiesta di un diritto specifico si sono trasformate in un’esplosiva domanda politica ed esistenziale. Sono dinamiche globali, non vanno limitate a manifestazioni del «terzo settore», ricettacolo di pratiche lodevoli e di altre non proprio commendevoli. Resta il problema dell’efficacia di questa politica. Non sempre raggiunge l’obiettivo e si perde in un’estenuante trattativa. Esiti che rischiano di subordinare queste esperienze alle strumentalizzazioni dei politici «postdemocratici».

La volontà di orientare le decisioni di un governo («fare lobbying») non esaurisce la partecipazione politica. Visto che quella recente è una storia di (relativi) fallimenti, può passare il solito messaggio: «tutto è inutile». Così vincono la solitudine, l’impotenza, i populismi. Una politica è efficace sia quando raggiunge un successo, sia quando crea percorsi di soggettivazione politica, abitabili e democratici. L’obiettivo è creare modelli di vita differenti e viventi.
Oggi si tratta di fare coincidere questi percorsi, anche con tempi e modalità diverse. Siamo all’inizio di un percorso, non al termine di una stagione.