Il fondamento della scommessa è il tempo, ma le infrastrutture – chiamiamole così – di questa scommessa, ciò che in qualche modo costituisce la sua «materia prima», già di per sé effimera, come osservava il sociologo australiano Richard Woolley, con il passaggio alla digitalizzazione integrale sono state radicalmente smaterializzate. Nel 1963, la tecnologia venne incorporata per la prima volta in un una slot machine. Tecnologia a base elettromagnetica, ma sufficiente per imprimere una doppia accelerazione al settore del gaming machine: da un lato, la sostituzione di molle e ingranaggi con circuiti e interruttori rendeva più sicura la gestione del gioco, evitando che colpi e movimenti provocati ad arte dai giocatori più esperti potessero in qualche modo compromettere i risultati programmati per la macchina, dall’altro, tramite luci, suoni e colori si potevano massimizzare i dispositivi capaci di attirare l’attenzione o trattenere il giocatore, costruendo una sorta di gabbia dalla quale ogni residuo di abilità e di volontà venissero esclusi.

Questa smaterializzazione si è oggi spinta all’estremo, grazie alla possibilità di giocare in bar e circoli o sale gioco, per non parlare dell’on-line, con high-speed machines altamente digitalizzate e accelerate nei processi, servendosi al contempo di carte di credito e persino di forme «alternative» di denaro, da Bitcoin in giù. Lo scorso 28 febbraio è stato il redattore degli affari sociali Randeep Rahnesh, sulle pagine del «Guardian», a lanciare l’allarme: nella sola Inghilterra, più di 13 miliardi di sterline sono stati bruciati in un anno con queste macchine. A perdere sono i più poveri, come sempre nella storia di questa vicenda perversa del già problematico rapporto uomo-macchina.

Il tempo è sempre il fattore chiave di questa smaterializzazione, ma è un tempo iper accelerato, funzionale ad altro rispetto a quell’orizzonte «ludico» in cui – per ingenuità, malafede o pigrizia – molti analisti ancora inscrivono il gaming machine. È un tempo funzionale per la costruzione sociale dell’addiction – comunque la si voglia intendere: devianza istituzionalizzata, patologia e via discorrendo – ma anche per le non meno prosaiche strategie di business che quella addiction sottendono, industrialmente programmano e culturalmente alimentano.

Proviamo a considerare un fatto: la legge italiana, all’articolo 110 (comma 6 lettera a) del Testo Unico delle Leggi di Pubblica sicurezza, prevede che la durata minima di una partita in una slot machine da bar, che la norma chiama «newslot», sia di 4 secondi per ogni euro giocato, il che significa che una partita di un minuto, salvo vincite, equivale a 15 euro, che diventano 900 all’ora. (La vincita massima per partita, ricordiamolo, è fissata in 100 euro). Quanto sia determinante per il comparto, ai fini di incassi e produzione di dipendenza diffusa, questo fattore-tempo lo dimostra un dato negativo: a fronte di tante parole contro le lobbies, non una sola proposta di modifica del rapporto tempo-giocata è stata avanzata. Eppure, basterebbe aumentare la durata minima di giocata – in attesa di provvedimenti migliori e più ampi, ça va sans dire –, portandola a 5-10 minuti, per minare alla base questo sistema, colpendo la sua e la nostra materia più preziosa e fragile: il tempo.