Nel ventesimo secolo diverse ondate migratorie hanno raggiunto gli Stati Uniti dall’Europa dell’Est, depositando segnali culturali controversi, che hanno suscitato la reazione incuriosita e stepefatta di molti autori naturalizzati: fra questi, Catherine Texier, che ne ha scritto in Russian Lessons (Rawmeash, 2016) e Gina Ochsner, autrice del Libro russo dei sogni a colori (Nottetempo, 2011), a dimostrazione del fatto che la matrice multilinguistica della cultura anglo-americana, messa in luce fra gli altri da Werner Sollors in Multilingual America (1998), produce una dialettica assai più significativa di quanto non emerga dalle questioni politiche all’ordine del giorno.

I calchi dell’immigrazione russa, in particolare, sono stati rielaborati con risultati interessanti da poeti come Louis Zukofsky e, più di recente, anche da narratori espatriati dalla Russia come Gary Shteyngart, cui si aggiunge ora il poeta-critico Eugene Ostashevsky, nato a Leningrado nel 1968 e arrivato a New York quasi adolescente, che ha risvegliato negli Stati Uniti un nuovo interesse per lo sperimentalismo radicale delle avanguardie russe, curando una edizione (Northwestern U.P., 2006) dei testi sperimentalisti del gruppo «Oberiu».

Ostashevsky definisce questi scrittori, musicisti e artisti futuristi, che anticiparono il teatro dell’assurdo con incursioni negli studentati di Leningrado e di san Pietroburgo, l’«ultima avanguardia russa», distinguendola dalla produzione sovietica che di fatto ne segnò il declino. Mentre Gary Shteyngart è andato alla ricerca nel profondo Sud degli Stati Uniti della matrice del suprematismo bianco di Trump, che ritiene speculare a quello di Putin (lo ha scritto in un articolo apparso sull’Atlantic che gli è costato il visto per la Russia) sul versante poetico Eugene Ostashevsky ravviva la provocazione futurista di Aleksei Kruchenykh e la spettacolarizzazione dello «zaum», ovvero «l’opera in lingua transmentale» Vittoria sul sole, perfettamente speculare al secondo manifesto futurista (Uccidiamo il chiaro di luna) in cui Marinetti irrideva un «misero Sole», simbolo della realtà oggettiva costretta a nascondersi, perché accerchiata dalle tenebre.
Nel redigere il prologo di questa burrascosa azione teatrale, che anticipò la rivoluzione, Chlebnikov adoperò un russo intenzionalmente sgrammaticato e stravolto nelle desinenze, esprimendo la sua incondizionata fiducia nel nuovo, tra i congegni meccanici e i fasci di luce di una scena movimentata il cui sipario veniva squarciato nel corso dell’azione.

i questa radicale rottura delle convenzioni letterarie i versi stilizzati e iconoclasti di Ostashevsky offrono una raffinata riattualizzazione, trasformando l’«assurdismo» futurista in una poetica postmoderna dell’immigrazione, e miscelando, ai confini linguistici tra russo e angloamericano, sofisticate teorie del linguaggio con un gusto yiddish per il grottesco, che istrionicamente riesce a trasmettere nelle sue trascinanti performance.
Il dramma a due voci, Il pirata che non conosce il valore del Pi (New York Review of Books, 2017) si fonda sull’incontro degli idioletti degli espatriati russi con le lingue occidentali che gli ebrei dell’est abitano come una seconda pelle, nella coscienza di una progressiva «cancellazione» della madrelingua russa nell’esilio americano e del sostrato yiddish represso per cinque generazioni in Russia. Pur avendo in apparenza il candore di una pièce teatrale per bambini, Il pirata è una fiaba nera che si carica dell’energia sovversiva delle avanguardie Oberiu.

L’apologo dei due animali che Ostashevsky adatta ai ruggiti e al fragoroso rumorismo dello «zaum», racconta di due uccelli «iteranti» dai tratti umani e ferini bene illustrati nei collage anamorfici di Eugene e Anne Timerman, che corredano il volume. La duttile materia linguistica è capace di trascinare il lettore/spettatore nel turbine di una catena di giochi di parole e di gerghi specialistici che alternano formule matematiche (il Pi del titolo allude anche all’astrazione algebrica del Pi Greco) ai racconti coloniali di viaggio del Seicento, il dialogo socratico ai giochi linguistici di Wittgenstein e alla fiaba allegorica. Il nostro incontro con Ostaschevsky si è svolto a Firenze, ma è prossimo un suo reading al Pisa Book Festival.

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Come spiega il recupero dello «zaum» nella sua poesia?
Lo «Zaum» , con tutti i fenomeni linguistici correlati, è la lingua delle parole in libertà, e rappresenta, per molti versi, un’astrazione linguistica parallela all’astrattismo delle avanguardie pittoriche del Novecento. A distanza di un secolo, la lingua intesa come materia è ancora molto importante per la sua capacità di descrivere il fenomeno delle migrazioni e la natura ibrida del linguaggio, visto dalla prospettiva di chi lo sta imparando e lo parla in maniera imperfetta. Gli immigrati, molto sensibili al suono delle parole straniere, al modo in cui sono scritte e alle loro regole sintattiche fanno esperienza di ciò che i formalisti russi definirono «straniamento»: ascoltano come fosse la prima volta, prestano attenzione alla struttura fonetica delle parole, alla loro morfologia, e talvolta anche alla loro forma grafica e alla etimologia. Da questo punto di vista, sono vicini all’atteggiamento del poeta, e talvolta ne discende una mancanza di comprensione che mette a nudo la materialità linguistica di uno «zaum» insensato. Allo stesso tempo, questo apparente difetto di comunicazione sviluppa una sensibilità verso i raccordi verbali che spesso la persona di madrelingua non riesce a cogliere, perché non vede le parole ma si limita a percepirle come puro veicolo di un significato.
Negli Stati Uniti i diversi accenti dell’immigrazione fanno parte di un panorama linguistico a cui sono da sempre esposte le diverse comunità arrivate in questo continente, che ha conosciuto diaspore, immigrazioni e deportazioni. Non ritiene che la letteratura riesca a valorizzare il potenziale espressivo di questi flussi migratori meglio del cosiddetto «global English» con la sua funzionalità meramente comunicativa?
Io parto da due prospettive letterarie: quella americana, che ha abolito del tutto la rima, e quella russa, che ha invece portato la prosodia e la metrica delle poetiche moderniste a un altissimo livello di virtuosismo e complessità. Il mio interesse per la dimensione plastica delle diverse forme di inglese deriva dal fatto di essere russo, e quindi permeato da una cultura che include anche lo «zaum».Un tema dominante nella mia scrittura è lo scontro tra questi due tipi di poetica. Penso spesso al declino della poesia classica, quella che un tempo si mandava a memoria, e all’appiattimento del verso libero che mi pare simile a un corpo eviscerato, una forma di poesia resa possibile dal razionalismo linguistico del capitalismo industriale.
Dopo lo sterniano «The Life and Opinions of DJ Spinoza», che intreccia in un’umoresca miscela postmoderna filosofia, disco music e acrobazie verbali, il suo nuovo volume è un inno all’autonomia della lingua e della poesia che si origina dall’assonanza dei termini «pirate» e «parrot», dando l’avvio a una serie di giochi di parole e di slittamenti semantici. Destrutturare la lingua come fecero le avanguardie russe può assumere, secondo lei, un valore particolare nell’anniversario della rivoluzione, che la vede impegnato anche come traduttore?
La differenza culturale tra l’americano e il russo, come quella più tecnica tra gli accenti e il potenziale ritmico delle due lingue, mi induce a credere che la forma non trascende la lingua, e che ogni lingua in un determinato momento storico ha una propria forma. Per questo motivo, io non intendo tradurre da una lingua, bensì nello spazio che si apre tra due lingue, e le mie versioni si avvicinano all’originale quanto più forzo i limiti delle regole poetiche americane, che non coincidendo con quelle della poesia russa, contribuiscono a renderla illegibile in America. Le lingue e le diverse culture sono reticoli esposti al caso e alla contingenza, e questo impedisce di delimitare in maniera netta i confini tra una lingua e le altre, e quelli tra una cultura e l’altra. Nessuna lingua è in grado di veicolare perfettamente forme di vita intrinseche a un’altra cultura. Potrei sforzarmi di dare a questo fatto una spiegazione logica e antropologica ma ciò non basterebbe a descrivere la sua specificità e ancor meno la sua possibilità di essere riprodotta, che è esattamente ciò che cerca di fare il traduttore. Dal mio punto di vista, la materia linguistica è sempre l’aspetto meno traducibile. Io tendo a forzare il testo, soprattutto perché i giochi di parole sono figure retoriche essenziali nelle mie poesie, sia in quelle monolingue che in quelle multilingue. Anche nel Pirata, l’intraducibilità è un tema centrale, soprattutto verso la fine del libro, nell’episodio in cui il pirata e il pappagallo si ritrovano su un’isola deserta a discutere sulla loro effettiva capacità di comprendere gli indigeni (che di fatto non incontrano mai) o di poter essere compresi da loro. Naturalmente questo è serve anche a definire l’esperienza dell’emigrazione: a mio parere, la frase più giusta l’ha scritta T.S. Eliot nel Viaggio dei Magi, dove parla di «un popolo straniero rimasto aggrappato ai propri idoli».