Da anni l’Asia è più che mai al centro di trame globali: sia da un punto di vista economico sia da quello geopolitico. Anche per questo il primo numero di «In Asia» verte su come il continente, nelle sue più diverse sfaccettature, si relaziona con il fenomeno di Daesh.

La Cina che ormai affronta la diplomazia internazionale sottolineando la propria forza, il Giappone che cambia la propria costituzione affacciandosi in modo nuovo sulle crisi internazionali, l’India sottoposta alla cura di Modi e – infine – quel centro e sud est asiatico da sempre crocevia di «piccoli» e «grandi giochi». È ovvio che la questione del terrorismo internazionale finisca per avere a che fare con il continente intero: sia per quanto riguarda gli interessi dei paesi asiatici nelle zone più calde del jihadismo internazionale, sia come territorio nel quale Daesh sperimenta propaganda, attacchi e nuove forme di proselitismo.

O ancora, per alcuni paesi significa «sfruttare» il pericolo per suggellare politiche «nazionaliste» e anti- accoglienza (come accade in Giappone). Si ha così l’immagine di un territorio il cui rapporto con il jihadismo è complesso e complicato, con alcune specificità. La Cina baratta posizioni internazionali, chiedendo l’attenzione mondiale su quella che ritiene una «minaccia interna», il Giappone a causa della morte di suoi connazionali, inviati di guerra, «scopre» Daesh, mentre Shinzo Abe è preso a costruirsi un’aura di tradizionalismo unita ad un nazionalismo che appare sempre più spinto.

L’India ne rivendica una distanza storica e culturale, alla luce dei suoi 180 milioni di musulmani. Un universo di paesi vedono nella minaccia terroristica un valido strumento per gestire al meglio il proprio dissenso interno. E sullo sfondo continentale c’è uno scontro storico e fondamentale tra chi condivide le medesime strategie del terrore, ma si divide un mercato: al Qaeda e Isis.