Nella Chanson de Roland i paladini di Carlo Magno sono descritti mentre, accomodati su drappi bianchi all’ombra di un grande pino, si divagano giocando a scacchi fra loro e col re, seduto sulla sedia da campo (il faldistorio). Gli storici, come ricordano i lavori di Licinia Speciale, hanno sempre pensato che questa scena fosse, come molte altre del poema epico francese, un anacronismo assoluto: benché infatti all’epoca gli scacchi fossero già usati in Oriente, dei doni inviati a Carlo dal califfo Ahrun-al-Rashid nell’801 non sembra facesse parte una scacchiera. I sedici scacchi «carolingi» che si trovavano nell’abbazia regia di Saint-Denis (ora alla Biblioteca Nazionale di Francia) sono stati datati ad epoca successiva e attribuiti a un’officina dell’Italia meridionale, dove il gioco – diffuso in India e in Persia fin dal VI secolo come competizione di strategia militare – si dice sia stato introdotto dagli Arabi, qui e in altre aree occidentali, poco dopo l’anno Mille. E tuttavia già nel X secolo è attestata in manoscritti di Einsiedeln una composizione poetica intitolata Versus de scachis e proprio l’anno scorso Mark Hall del museo di Perth ha dato notizia del ritrovamento archeologico di scacchi in tombe vichinghe delle isole Orcadi: le sepolture risalgono al IX secolo e dunque è probabile che la scoperta possa rimettere in discussione la storia europea di questo gioco così global, oggetto privilegiato di ricerche su passaggi e adattamenti interculturali.

Mark Hall, i maestri, i giovani

Mark Hall sarà uno degli oltre trenta specialisti internazionali riuniti a Spoleto dal 20 al 26 aprile prossimi per la 65sima settimana di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (cisam.org), ora Fondazione, uno degli eventi annuali più antichi e più importanti della medievistica mondiale, cui prendono parte da sempre maestri della disciplina e giovani studiosi di ogni provenienza, seguendo i lavori in traduzione simultanea plurilingue e intervenendo nella discussione che, caso unico, viene stampata negli atti insieme alle relazioni. Il tema di quest’anno (Il gioco nella società e nella cultura dell’alto medioevo) rende omaggio allo studio di cui settant’anni fa usciva per il Saggiatore (dopo la traduzione Einaudi del ’46) la ristampa della seconda edizione italiana: Homo ludens, apparso in tedesco nel 1939 col sottotitolo L’individuazione (ma il tedesco Bestimmung ha semantica più generosa) dell’elemento ludico nella civiltà, uno dei capolavori dello storico olandese Johan Huizinga, autore di saggi di culto come L’autunno del Medioevo ed Erasmo. Era il primo tentativo di storia delle civiltà dal punto di vista del comportamento ludico, con un’ampiezza di osservazione che, in tempi di pieno eurocentrismo, includeva continui riferimenti a culture non europee e, staccandosi da un paradigma intellettuale incrollabilmente legato alla cultura «alta», indagava sullo stesso piano citazioni poetiche e testimonianze di vita quotidiana. Convinzione di Huizinga era che «la cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata. (…) Con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo», a partire dai significati sacrali e scolastici del greco paizo fino al senso sociale di fair play e alle accezioni musicali e teatrali dell’inglese play e del tedesco spielen come dell’arabo la’iba.

Forse proprio per questo il saggio, che si muoveva in forma arditamente interdisciplinare fra antropologia, storia, filosofia, diritto, psicologia e linguistica, ebbe un’accoglienza sussiegosa fra gli specialisti di una o dell’altra disciplina, e perfino la prefazione di Umberto Eco all’edizione ’82 non entrava nel merito delle idee di Huizinga ma si proponeva come meta-recensione – benevola, ma con malcelata distanza. Eppure Homo ludens ha avuto e continua ad avere moltissime riedizioni e, insieme agli otto Nobel assegnati a specialisti della «teoria dei giochi», fornisce ancora oggi una sorta di ascendenza nobile all’esplosione di game studies in tutti i settori della ricerca.

Negli anni 2000 il tema del gioco come specchio del funzionamento di una società è salito anche all’attenzione della medievistica soprattutto internazionale, favorendo lo sviluppo di esplorazioni su sport, intrattenimenti e passatempi nel medioevo. In Italia il campo è molto meno frequentato, se si esclude la meritoria attività della rivista «Ludica», diretta dallo storico Gherardi Ortalli, che giovedì 20 alle 10.30 terrà appunto la prolusione della settimana spoletina al Teatro Caio Melisso. Soprattutto per ciò che riguarda l’alto medioevo, cioè il periodo che separa la fine dell’impero romano dalla cosiddetta rinascita dell’XI- XII secolo, la presenza delle forme ludiche nella società e nella cultura – e dunque nelle sue fonti storiche, letterarie, giuridiche, artistiche e archeologiche – è rimasta infatti un terreno quasi inesplorato: per questo l’occasione creata dal CISAM potrà configurare una prima autorevole messa a punto di ricognizioni così nuove. Si partirà dalla definizione delle categorie culturali e della terminologia linguistica relative al gioco per entrare nella storia della trasmissione dei giochi dalla tarda antichità al medioevo e fermarsi sull’analisi delle funzioni sociali del gioco (inteso come competizione), che spesso modellavano sotterraneamente anche i riti liturgici e processuali, oltre che le cerimonie militari e cavalleresche, e si riflettevano perfino nelle interpretazioni teologiche sul gioco dei dadi fra azzardo e sacralità del destino.

La caccia come gioco di società

Novità si attendono sulle attestazioni archeologiche e le rappresentazioni storico-artistiche (specialmente dadi e scacchi) sia in ambito latino e germanico che nelle culture araba e persiana, così come sulla funzione politica dei ludi pubblici in contesto urbano o bellico – specialmente attraverso il confronto fra le nuove abitudini dei popoli germanici e gli sviluppi dei giochi romani nello spazio eurasiatico dell’impero bizantino –, fino all’analisi della caccia come gioco di società, destinato a rimanere un distintivo nobiliare fino all’aristocrazia dell’Ottocento. Grande spazio sarà dedicato all’utilizzo di sistemi ludici nell’insegnamento: basti pensare al fatto che parte dell’apprendimento scolastico delle culture anglosassoni si effettuava attraverso forme enigmistiche che rappresentano vere e proprie creazioni interculturali fra immaginario nordico e tradizione latina. È da questa impostazione che si sviluppano i primi problemi logici e matematici in forma «narrativa», inventati da Alcuino di York per la riforma scolastica carolingia e usati ancora oggi (fra questi il celebre dilemma su capra e cavoli), come anche i quiz biblici creati per l’«infotainment» dei religiosi: gli Ioca monachorum.

La settimana CISAM accenderà quindi i riflettori anche sulle conseguenze creative di questa inclinazione all’enigmistica come chiave di accesso al sapere: i meccanismi ed effetti di «gioco» nella letteratura, anglosassone o celtica, latina o bizantina, che nel medioevo subiscono un fortissimo incremento rispetto alla tradizione classica e generano molte di quelle forme di wordplay, lingue immaginarie e poesia visuale la cui invenzione si attribuisce talvolta, erroneamente, solo all’età moderna, alle avanguardie e all’OULIPO francese. Questa ludicità verbale, conseguenza dell’adozione di una super-lingua sovranazionale (il latino) che non era sentita come lingua madre di nessuno e presentava dunque un forte grado di artificiosità nativa, era uno degli aspetti del medioevo da cui Umberto Eco, che annoverava il gioco fra i cinque bisogni fondamentali dell’uomo, era più profondamente affascinato e che più teneva a mettere in luce nelle sue imprese divulgative come Encyclomedia o nei divertissement come Sator arrepo eccetera. Forse perché convinto che, come dimostra la storia di Edipo e la Sfinge, nel gioco dell’indovinello si annida il segreto della vita, magari solo per lasciarci scoprire che si tratta di un’aporia, una domanda cui è impossibile o inutile rispondere.