Agli inizi del Novecento un evento più di altri ha segnato l’avvio del nuovo secolo: la nascita della psicoanalisi. Il suo manifesto, L’interpretazione dei sogni, veniva pubblicato nel 1899, ma avrebbe dato i suoi primi frutti solo a partire dagli anni dieci. Difatti non fu una rivoluzione prettamente medico-terapeutica. Anzi. Le maggiori implicazioni della scoperta dell’inconscio avrebbero riguardato territori come la filosofia, l’estetica e l’arte. E non è un caso se le più promettenti avanguardie pittoriche cominciarono proprio in quegli anni a fare capolino dalla tradizione moderna dell’arte. Fra le più radicali, il movimento dadaista e quello surrealista. Due guanti di sfida gettati contro tutto ciò che fino a quel momento era stato ritenuto Bello e conforme al gusto delle accademie e della critica.
E dunque appare azzeccato il titolo scelto per la mostra alla Fondazione Ferrero di Alba: Dal Nulla al Sogno Dada e Surrealismo dalla Collezione del Museo Boijmans Van Beuningen (a cura di Marco Vallora, fino al 25 febbraio). Nulla e sogno, quindi. O, in altri termini, thanatos e eros. Oppure, ancora, Dada e Surrealismo. È questo il doppio binario che dà il ritmo all’esposizione, incentrata su alcuni dei capolavori custoditi dal prestigioso museo di Rotterdam. Da una parte, incontriamo infatti la pulsione distruttrice dei dadaisti, come ricorda Vallora nel cartello della prima sezione della mostra: «Dada: abolizione della memoria, Dada: abolizione dell’archeologia, Dada: abolizione dei profeti, Dada: abolizione del futuro». Dall’altra, a questa pars destruens fa da contraltare il potere immaginifico dei surrealisti, che erano partiti dallo stesso principio nichilista salvo poi indirizzare la loro ricerca verso territori ben più fecondi come quelli dell’onirico e del magico. Così i due movimenti, pur intrecciandosi e ammiccando l’uno all’altro in un continuo gioco di provocazioni e rimandi, appaiono tutto sommato distanti e irriducibili fra loro. E ciò forse è dovuto anche a ragioni prettamente storiografiche: «A differenza dei Dadaisti che in un certo qual modo avevano cercato di schivare e allontanare da sé la guerra nella neutrale Svizzera, i futuri artisti Surrealisti la guerra l’avevano vissuta, anche soltanto da barellieri o da medici».
In quest’ottica la prima sala vede da un lato alcune grandi tele di Picabia, dall’altro sculture e opere di Hans Arp, Man Ray e Marcel Duchamp. Su tutte, spicca il Dono di Man Ray del 1921. Un ferro da stiro munito di chiodi, un emblema dell’ambiguità sadica di ogni rapporto uomo-donna. Un oggetto creato per appianare pieghe e grinze, ma che in questo caso funge da motore di strappi e lacerazioni. Il tutto narrato in forma di dono, quasi a sottolineare la natura ambivalente di un gesto che è sì generoso, ma che al contempo lega e rende vincolati il donante e il ricevente. A dire il vero, lo sguardo dadaista del percorso si esaurisce già in questo primo passaggio, dal momento che a partire dalla seconda sala irrompe prepotentemente l’opera dei surrealisti, vero centro gravitazionale dell’intera esposizione. E non potrebbe emergere in modo più fragoroso.
Isolato su una parete specificamente dedicata, si offre allo sguardo un dipinto in grado di ammutolire il pensiero razionale e la logica delle parole. Si tratta de La riproduzione vietata di Magritte del 1937. Un uomo di spalle fissa la propria immagine riflessa da uno specchio. Ma non vede il proprio volto, bensì la sua stessa nuca. Un cortocircuito insito nel rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso. La messa a terra plastica e figurativa dell’intero sistema di Freud: nell’isolamento del proprio solipsismo, nessun soggetto è in grado di riconoscersi autenticamente dando forma compiuta al proprio Io. Il dialogo interiore dell’individuo, sprovvisto di un più penetrante sguardo che si rifaccia ai temi dell’inconscio e del sogno, non può che portare a una scena muta, dove le parole e il pensiero non sono in grado di dire alcunché circa l’essenza della nostra soggettività. Proseguendo oltre, lo spettatore raggiunge i temi più esteriori e patinati dell’estetica surrealista. Qui primeggiano alcune tele di Salvador Dalí, dall’imponente Paesaggio con ragazza che salta la corda del 1936 alle esotiche Impressioni d’Africa del 1938, accompagnate da altre opere di Magritte, Ernst, Tanguy.
E forse, sul finire della mostra, è proprio dalla contrapposizione di due opere di Magritte e Dalí che lo spettatore viene messo di fronte a due visioni antitetiche del Surrealismo. Parliamo de La giovinezza illustrata (1937) del pittore belga e di Spagna (1938) del maestro spagnolo. Siamo negli anni del franchismo e se Dalí sembra meditare addolorato sulle conseguenze della guerra, dipingendo un quadro desolato, attraversato da fantasmi evanescenti e mortiferi, al contrario Magritte pare rinchiudersi in un universo incantato, popolato di oggetti simbolici sospesi in un paesaggio senza tempo, estraneo a ogni tipo di cornice storico-realista. Quasi un bivio di fronte al quale il Surrealismo non sa quale strada imboccare: continuare nel solco dell’immaginazione e del trasognante o mettersi sul cammino che porta alla presa di coscienza di una realtà fragile, angosciata, traballante?
Un enigma che forse non ha soluzione. Una dicotomia entro la quale è preso ogni sforzo dell’uomo di conciliare utopia e razionalità, desiderio ed esame di realtà. A ben vedere, qualcosa come un racconto dettagliato e precipuo dell’esistenza e dei suoi paradigmi ontologici. Dunque, non semplicemente la rassegna di un movimento artistico, di un atteggiamento culturale: all’uscita di Dal Nulla al Sogno ci si rende conto che ogni opera appena osservata ci ha parlato in modo intimo, rappresentando lo sforzo eterno di conciliare pulsioni e vincoli sociali, sogni e principio di realtà. Da qui la provocazione di Vallora riportata sull’ultimo pannello: «Rebus: ma dal Museo, è possibile uscire davvero?» Forse, un invito a rimanere sospesi ancora un po’ fra le istanze proposte dall’esposizione: il nulla e il sogno. A tenere insieme i due lembi della contraddizione, senza lasciarsi fagocitare né dall’annichilimento di ogni significato né dall’esondazione senza controllo di immagini, parole, cornici di senso alternative. Chi dovesse appiattirsi su uno dei due poli sarebbe, in ultima analisi, perduto.