Nel largo ventaglio delle celebrazioni del centenario pasoliniano e nelle tante uscite editoriali, Caro Pier Paolo (Neri Pozza, 2022) è tra queste forse il libro più intimo e confidenziale. Scritto da chi lo ha frequentato e conosciuto davvero: Dacia Maraini, che con il poeta – regista friulano ha intrattenuto una lunga amicizia culminata in viaggi, tra le mete più frequentate il Continente Nero (e in cui s’incuneavano le «afriche» di Moravia e di Pasolini), collaborazioni cinematografiche (la sceneggiatura di uno dei film della «trilogia della vita», Il fiore delle mille e una notte) e soprattutto una consuetudine dialettica, fatta anche di minimi gesti, che andava oltre le diatribe e polemiche politico-letterarie, molto animate e divisive tra gli anni sessanta e la metà degli anni settanta del secolo scorso. Quello che segue è lo scambio di e-mail intrattenuto con la scrittrice di La lunga vita di Marianna Ucrìa tra il 23 e il 25 febbraio scorso.

Può ricordare, come scrive nel libro, se non la prima volta che ha incontrato Pasolini, quando ha il primo ricordo di Pasolini? Quando ha cominciato a leggere i suoi libri? Ha scoperto prima la sua poesia o i romanzi? O preferiva l’acuto critico e saggista, il Pasolini cineasta o l’ultimo polemico corsivista?
Come ho scritto nel mio libro, in quegli anni non ci si dava appuntamento per vedersi. Ci si incontrava per il piacere di farlo, in caffè e ristoranti dove ci si trovava la sera. Pier Paolo l’ho conosciuto così . Ho amato prima di tutto la sua poesia. Poi è venuto tutto il resto.

Sono molti ad affermare che l’Italia non ha espresso più un intellettuale come Pasolini. Eppure, alla sua morte vivevano e scrivevano ancora Moravia, Calvino, la Morante, Eco, Severino, Arbasino, Testori. Peraltro costoro, in modo spesso divergente, seppero anticipare e forse ancor più drizzar le antenne sui cambiamenti della società, andando ad occuparsi di urgenze oggi all’ordine del giorno come i cambiamenti climatici, gli usi spregiudicati del nucleare, l’invasività della tecnologia, i rapporti con la religione e la condizione della donna. Come mai molti di questi sono precipitati nel cono d’ombra della cultura e della letteratura? Ed è interessante che alcuni di loro, insieme ad altri, li abbia chiamati a raccolta in uno degli ultimi sogni del libro, quasi a tracciare una possibile e confidenziale storia della letteratura italiana.
Ho cercato di riportare, per lo meno in un gioco fuori dal tempo, le loro presenze, che sono state importanti per me. E anche per Pier Paolo. Era il nostro mondo ed è doloroso che non ci sia più.

Nel libro delicatamente affronta le contraddizioni evidenti nella scrittura e nel pensiero di Pasolini – l’idiosincrasia per i gruppi, anche minoritari, omosessuali, femministe, i movimenti contestatari, la posizione sull’aborto, ecc. – scegliendo l’escamotage «freudiano» degli incontri in sogno con il poeta. Ciò ha comportato l’adozione di una prospettiva inedita rispetto alla critica corrente che fa di Pasolini spesso un santino più da citare che da leggere?
Sarebbe una offesa alla verità non riconoscere le contraddizioni che Pasolini viveva, come le viviamo tutti, solo che lui le pagava di persona e questo lo dispensava da un giudizio negativo. Chi si contraddice e si nasconde è un vile. Chi si contraddice e lo confessa, non solo, ma si condanna da solo, è un giusto.

Tra le pagine più intense vi è il ricorso continuo ai viaggi, soprattutto africani, compiuti con Moravia e Pasolini, cui una volta s’aggregò anche Maria Callas. Com’erano questi viaggi? Pasolini vi ritrovava quell’arcaicità mitica che il boom stava cancellando nell’Italia che amava, qual era invece il suo sguardo e quello di Moravia sul Continente Nero che, come documentò molto cinema italiano degli anni sessanta, andava sempre più corrompendosi?
È proprio così: Pasolini cercava in Africa quel mondo preindustriale e preideologico che lo incantava. Non sempre lo trovava, ma in quegli anni se ne potevano trovare le tracce. Ora l’Africa è completamente cambiata, sia per le gravi pandemie, sia per il terrorismo religioso che ha avvelenato i luoghi degli incontri.

È noto il suo impegno per le donne, le battaglie femministe degli anni settanta, il rapporto con il maschio e dunque con il potere, la disgregazione della coppia, il sesso vissuto come parte integrante dell’affermazione del proprio corpo, temi che in embrione sembrano anticipati da un film come «Teorema» e proseguito in un fil rouge, forse poco compreso dalla critica, che si scioglie in «Ultimo tango a Parigi» e ha i suoi nodi intermedi ne «La coppia» di Enzo Siciliano e nel suo «L’amore coniugale». Non ritiene che Pasolini con le sue posizioni abbia curvato il suo pensiero su una reazione a tali spinte libertarie?
No, non credo. Pasolini non aveva uno sguardo antropologico o sociale sulla realtà. Non era un realista e neanche la ragione lo interessava molto. Le sue idee correvano col suo stesso corpo e questo lo rendeva all’avanguardia anche quando appariva in retroguardia. Era un testimone drammatico e carnalmente impegnato del suo tempo e di questo bisogna dargli atto. Come un Giordano Bruno moderno ha sfidato il rogo con un coraggio straordinario e credo che per questo la gente lo consideri un martire e un eroe.

Nel calderone delle iniziative che stanno affollando il centenario della nascita un po’ dovunque, in quale parte della poliedrica produzione intellettuale e artistica di Pasolini intravede ancora una carica di futuro?
Nella sua carica emotiva, nella sua sfida alla saggezza, nella sua profonda anarchica spiritualità. Come ho detto: Pasolini è uno strano e favoloso testimone del suo tempo, e come tale va capito e amato.